La preghiera è il respiro dell’uomo – Domenico Sorrentino

“Lo Spirito grida nei nostri cuori: Abbà! Padre!(Gal 4, 6b). “La preghiera come stile di vita”. Questo il tema della riflessione di mons. Domenico Sorrentino, arcivescovo di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino. La vita cristiana è un culto spirituale, un ininterrotto colloquio con il Dio trinitario, che non esclude nessun campo dell’esistenza. Soprattutto i carismatici – spiega mons. Sorrentino – sanno quanto la preghiera possa e debba diventare azione. 

 Domenico Sorrentino 

Fiumi d’acqua viva 

L’episodio evangelico del colloquio tra Gesù e la donna samaritana racconta che il punto di incontro è un pozzo. Gesù vi siede stanco e la samaritana viene ad attingere (cf Gv 4, 1-26). Quel pozzo diventa, nel dialogo di Gesù con la donna, il pozzo senza fondo della vita Trinitaria, e la donna venuta per attingere, in definitiva è chiamata a “tuffarsi” in quel pozzo da cui scaturisce acqua viva. «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva» (Gv 4, 10). Alla reazione della donna, che nulla sospetta del senso misterioso di quella frase, Gesù spiega: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (vv. 13 – 14). 

Un tema, questo, sul quale il Vangelo di Giovanni tornerà al capitolo 7, dove Gesù chiarisce che l’acqua viva è lo Spirito Santo: «Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: “Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva”. Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato» (vv. 37-39). 

Pregare è una specifica modulazione del rapporto tra Dio e l’uomo: un dialogo.  L’uomo bisognoso e il Dio misericordioso stanno di fronte. Si parlano. Nell’uomo questo dialogo assume coloriture diverse: adorazione, lode, richiesta, intercessione... Ma è importante anche cogliere le modulazioni del dialogo dalla parte di Dio. La Scrittura ce le fa conoscere. 

Dio ha sete dell’uomo! 

Incontrando la Samaritana, Gesù mostra il volto di un Dio che si è fatto vicino. Tutta la storia della salvezza è un progressivo avvicinamento di Dio all’uomo. Nel racconto della samaritana il nome stesso del pozzo – pozzo di Giacobbe – rinvia alla storia dei patriarchi, dunque a quel primo atto della storia speciale di salvezza che inizia con la chiamata di Abramo. In realtà la Bibbia fa iniziare il percorso dalla creazione stessa del mondo e dalla prima coppia umana. Dio parla, e le sue prime parole sono parole di creazione e di benedizione, parole di orientamento e norme di vita: «Siate fecondi e moltiplicatevi» (Gen 1, 28). Anche parole di proibizione e monito: «dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne dovete mangiare» (cf 2, 17). Fin qui un linguaggio tutto all’insegna del positivo. Il dramma affiora nell’interrogativo posto ad Adamo: «Dove sei?» (Gen 3,9). La risposta di Adamo è la prima parola dell’uomo rivolta a Dio: ahimè, una confessione di paura e di vergogna per il senso di “nudità” provocato dal peccato. Ma l’interrogativo di Dio – «Dove sei?» – è già espressione di misericordia. È Dio che comincia a “cercare” la sua creatura ormai posta inesorabilmente sul piano inclinato della perdizione. Nel viandante polveroso e stanco che giunge al pozzo di Giacobbe c’è la lunga ricerca, da parte di Dio, dell’umanità ferita. «Dammi da bere!» (Gv 4, 10). Dio ha sete della sua creatura! Se dunque vogliamo impostare bene la nostra preghiera, bisogna che ci convinciamo che, prima del desiderio che noi abbiamo di Dio, c’è il desiderio che Dio ha di noi. È questo desiderio divino che ci attrae, e ci fa sentire l’incontro con Dio come il nostro “riposo”. Agostino ci ricorda questo principio strutturale dell’essere umano: «Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (Confessioni, 1, 1). Dio ci ha fatti per sé, e conduce la nostra vita in modo che torniamo a lui non più soltanto come sue creature, ma come figli, anzi, figli rivestiti di un abito sponsale, perché egli stesso possa trovare in noi, come lo sposo nella sposa, le sue delizie: «come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te»: Is 62, 5b).  

Pregare in Dio 

La rivelazione trinitaria fa della preghiera cristiana una realtà nuova, rispetto a quanto si può sperimentare nella fenomenologia religiosa universale. Questa novità è così espressa da un teologo contemporaneo: «Il cristiano non prega “un” Dio, ma prega “in” Dio» (B. Forte, Trinità come storia. Saggio sul Dio cristianoPaoline, Cinisello Balsamo 1988, p. 56). La preghiera del battezzato assume i tratti del dialogo trinitario. Questa prospettiva emerge, come in filigrana, anche dall’espressione che Gesù usa nel dialogo con la samaritana a proposito del vero culto: «I veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (cf Gv 4, 24). Non è l’affermazione di un culto interiore contrapposto a un culto esteriore, ma di un culto che ha il suo luogo nel “tempio vivo” che è Gesù stesso, dove il rapporto con il Padre si costruisce nello Spirito che egli effonde e nella verità che coincide con il suo mistero di Figlio: «Io sono la via, la verità, la vita» (Gv 14, 6).   

Questa modulazione trinitaria della nostra preghiera è posta in noi con la formula stessa del battesimo, suggerita in Matteo: «Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (cf 28, 19). Il battesimo è un tuffo nella vita di Dio. Il “nome” in cui siamo battezzati non è un puro riferimento a Dio, ma la sua stessa vita. Si realizza in noi il mistero vissuto pienamente da Maria: diventiamo una sola cosa con Gesù. Siamo posti, come il Figlio, nel grembo del Padre; e il Figlio è posto in noi. Dal momento del battesimo la nostra vita diventa quella di Gesù: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (cf Gal 2, 20). Un dono a cui la nostra esistenza si deve continuamente piegare: «Rimanete in me e io in voi» (Gv 15, 4a). D’ora in poi il problema non sarà più incontrare Dio, ma rimanere in lui. Come Gesù spiega nel Vangelo di Giovanni, al capitolo 15, rimanere in lui significa rimanere nel suo amore.  

Che cosa è questo amore? Viene sempre la tentazione di rispondere a partire dalla dimensione etica. Questa, certo, non può mancare, come Gesù stesso sottolinea: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore» (Gv 15, 10a). Ma prima della dimensione etica c’è il dono che Dio fa a noi di se stesso. Si tratta dell’amore che il Padre porta a Gesù e Gesù riversa su di noi: «Come il Padre ha amato me, anchio ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (v. 9).  

L’amore in cui dobbiamo rimanere è dunque innanzitutto l’Amore donato. In ultima analisi è Dio stesso: «Dio è Amore» (1 Gv 4, 8b). In chiave trinitaria, è lo Spirito Santo, la Persona-Amore.  

Il dialogo della Trinità 

La preghiera, prima di essere una nostra invocazione o una nostra lode, è un lasciarci invadere dall’Amore. L’Amore, che è lo Spirito, ci inserisce nella dinamica trinitaria: tutto dal Padre e tutto verso il Padre, tutto attraverso il Figlio, tutto nello Spirito Santo.  

Il dialogo intimo della Trinità non si svolge lontano da noi: per dirla ancora con Agostino, è «intimior intimo meo, più intimo a me di me stesso» (Confessioni, 3, 6). Vale, questo,  per il rapporto di Dio con ogni persona e ogni cosa. Se avessimo speciali doni mistici, da poter sentire nel tempo un assaggio di questo dialogo che invece sarà la nostra gioia in paradiso, noi sentiremmo gli accenti di un dialogo di amore, come è accaduto a un mistico del nostro tempo che ho avuto la grazia di conoscere da vicino, perché è stato mio predecessore come vescovo di Pompei, mons. Francesco Saverio Toppi. I suoi doni speciali gli hanno permesso di sperimentare qualcosa dell’intimità divina: la “pericoresi”, ossia il dialogo delle persone divine, che “abitano” l’una nell’altra e si “riversano” l’una nell’altra (concetti espressi in gergo teologico con i termini di “circuminsessione” e “circumincessione”).  Nei suoi diari spirituali emerge questa esperienza che a volte lo lasciava totalmente rapito. Giunge a dire di aver assistito al mistero della generazione del Figlio, percependo in qualche modo queste effusioni dell’amore del Padre e la risposta del Figlio. Parole tuttavia che egli si affrettava a qualificare come “indicibili”: «Sono stato letteralmente dirottato e irresistibilmente risucchiato dai “fiumi d’acqua viva” nel vortice, a capo fitto, delle circumincessioni e delle circuminsessioni dei Tre. Nel silenzio abissale dell’Amore… Ho visto la generazione quale comunicazione della stessa sostanza del Padre a livello di natura, di essenza La persona di Abbà si “costituisce” (povero linguaggio umano!) con il generare il Figlio. Mentre sullo sfondo si delinea un certo intervento dello Spirito, quale potenza divina d’Amore, quale anima della generazione… Ho percepito con chiarezza e goduto deliziosamente la differenza tra generazione e spirazione…» (F. Saverio ToppiDiario di una preghieraa cura di F.F Mastroianni, E.C.N., Napoli 2011, p. 743). 

Se la vita trinitaria è presente alla radice di ogni creatura e di ogni animo umano, il dono di parteciparvi in pienezza, con una coscienza sempre più viva, è proprio della vita battesimale, crismale, eucaristica. La dimensione trinitaria è da coltivare in ogni preghiera cristiana. Se preghiamo cristianamente, preghiamo trinitariamente.   

Pregare nel Figlio 

«Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!”» (Gal 4, 6b). È un’affermazione fondamentale per comprendere il senso della preghiera cristiana. Un’affermazione da completare con quella che si trova nella Lettera ai Romani: «Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio» (8, 14-16) 

La dimensione cristologica e quella pneumatologica della preghiera sono intrecciate e inseparabili. Noi diventiamo figli nel Figlio grazie all’effusione dello Spirito Santo. È lo Spirito che attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. Essendo la nostra vita posta in Gesù, anche la nostra preghiera si unisce sempre a quella di Gesù. Il suo rivolgersi al Padre chiamandolo col tenero appellativo di “Abbà” diventa l’anima del nostro modo di pregare. Gesù ci introduce nella sua stessa intimità, la vive con noi e in noi. Il suo Spirito grida in noi “Abbà”. Ci spinge a sintonizzare la nostra invocazione con l’invocazione del Figlio, a farla nostra sempre più pienamente, partecipando alla vita e alla preghiera di Gesù. Questo avviene in modo speciale nella liturgia. La Costituzione Sacrosanctum Concilium sottolinea, al n. 7, la presenza di Gesù nella liturgia: «Per realizzare un’opera così grande, Cristo è sempre presente nella sua Chiesa in modo speciale nelle azioni liturgiche. È presente nel sacrificio della Messa sia nella persona del ministro, egli che, offertosi una volta sulla croce, offre ancora se stesso per il ministero dei sacerdoti, sia soprattutto sotto le specie Eucaristiche. È presente con la sua forza nei sacramenti, di modo che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza, è presente nella sua Parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura. È presente, infine, quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro”».  

È proprio questa speciale presenza di Gesù che fa della liturgia la preghiera cristiana per eccellenza, fondamento e culmine di tutta la vita cristiana. 

Ma la preghiera non liturgica partecipa della stessa fisionomia. Più che “non liturgica”, andrebbe chiamata “con-liturgica”, per indicare che essa si muove sempre in connessione vitale con la liturgia, specie con l’Eucaristia.   

Pregare con la Parola 

Il Figlio è la Parola eterna del Padre. «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (Gv 1, 1). Questa affermazione fondamentale di Giovanni apre il sipario sul mistero della vita intima di Dio. Il Dio che appare al nostro sguardo non è un solitario, ma un Dio in dialogo. Il Verbo è presso Dio, o meglio, presso “il Dio” (o Theòs), come il Nuovo Testamento si esprime per indicare il Padre. Normalmente l’espressione “pros tòn Theòn”, viene tradotta come stare con” il Padre, “stare accanto” al Padre. Ma qualche esegeta, con buone ragioni, sottolinea il senso dinamico dell’espressione (cf I. De La Potterie, L’empolie dynamique de εἰς dans saint Jean et ses incidences théologiques, in Biblica 43 (1962), pp. 366-387; R. E. Brown, Giovanni, Cittadella, Assisi 1979)Quello del Verbo non è solo uno stare fianco a fianco, ma uno stare di fronte al volto del Padre, guardandolo e venendone guardato. Ciò ben corrisponde alla dinamica propria della vita trinitaria come la fede ce la presenta: il Figlio eternamente generato, e generato perché amato, è rivolto al Padre. Il suo essere Parola è già, in qualche modo, preghiera. Pur avendo tutto l’essere del Padre, ed essendo Dio come lui, egli sperimenta la “ricettività” del suo essere, lodando e ringraziando il Padre, che è principio senza principio.  L’espressione Abbà con cui si rivolge al Padre nella sua vita terrena è già, in certo senso, sulle sue “labbra” eterne. Egli è, per essenza, Parola, e il suo rapporto con il Padre è dialogo di amore.  

Dalla vita intima di Dio lo sguardo si allarga subito ad extra. Creando attraverso il Verbo, Dio si pone “in uscita”: «tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (Gv 1, 3). Dunque non c’è nulla che non sia frutto di questo dialogo di Amore trinitario: Colui che, nell’eterno, è la Parola generata, nel tempo è la Parola creatrice. Ne deriva che ogni realtà del creato, come frutto di questa Parola, ne porta il segno e l’eco. C’è una lode inespressa e implicita del creato che sale verso il Padre per il solo fatto che ogni realtà creata è pregna del Figlio, e dunque da ogni realtà del creato sale verso il Padre l’Abbà del Figlio. Aveva ragione s. Francesco a cantare: «Laudato si’ mi Signore per frate Sole, sora Luna, sora acqua, frate focu». Quel “per” fa impazzire gli interpreti, potendo significare diverse cose (cf D. Sorrentino, Laudato si’. Dal Cantico di frate Sole all’Enciclica di Papa Francesco, Cittadella, Assisi 2015, p. 29). Ma certamente uno dei significati è quello di agente: le cose del creato lodano il Creatore con il loro stesso essere.   

Rivolgiamoci a Dio con i Salmi 

Nella sua originale rilettura del Cantico di frate Sole, J. Dalarun arriva a dire che Francesco, convinto profondamente dell’inadeguatezza dell’uomo a lodare il Signore a causa del suo peccato, («nullu homo ene dignu te mentovare», si legge nel Cantico), si rivolge alle altre creature perché siano esse a lodare, facendo quello che l’uomo non saprebbe fare degnamente (cf J. DalarunIl Cantico di frate Sole. Francesco d’Assisi riconciliato, Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 2015, p. 45).   

Ma è chiaro che spetta all’uomo assicurare coscienza e voce alle cose per la lode di Dio: «Santo, santo, santo il Signore Dio degli eserciti. I cieli e la terra sono pieni della tua gloria» (cf Is 6, 3). La liturgia ci pone sulle labbra il canto intonato dai Serafini.  

C’è pertanto una liturgia cosmica che si realizza per il fatto stesso che ogni cosa è posta nella Parola creatrice. 

A maggior ragione questo vale quando si prega con la Parola ispirata, la Scrittura, con la quale l’eterna parola di Dio si è inserita nella storia dell’uomo, facendone una storia di alleanza fino al culmine dell’incarnazione e del mistero pasquale. Tutta la parola di Dio, da capo a fondo, è anche preghiera. La preghiera non ha soltanto il carattere ascendente che dall’uomo sale a Dio: essa parte sempre da ciò che Dio dice, in tutte le espressioni del suo farsi vicino all’uomo. La vediamo così nella diversità dei testi biblici e dei loro generi letterari, che sono anche espressioni delle varie situazioni dell’incontro di Dio con l’uomo, da quelle poste con precisi eventi storici, tradotti in linguaggio narrativo, a quelle di tipo profetico e sapienziale.  Pregare con la parola di Dio significa incardinare la preghiera sulla rivelazione, ed evitare il soggettivismo, che tante volte produce immagini di Dio non corrispondenti al suo volto. Ci facciamo spesso un Dio a nostra misura, a nostra immagine. Le varie forme dell’ateismo, come ricorda il Concilio vaticano II sono un’aberrazione, ma possono avere una funzione paradossalmente benefica se ci costringono ad affinare la nostra immagine di Dio (cf Gaudium et Spesnn. 19-21). Dio è sempre più grande dei nostri pensieri, e ogni nostro concetto o immagine rischiano di tradirlo, fino a diventare un idolo. 

Pregare con la parola di Dio, letta con una conoscenza ben introdotta e in comunione con la Chiesa, ci aiuta a pregare Dio come egli vuole essere pregato. Importante allora la pratica della Lectio divina, che ci consente di metterci in un vero ascolto della Parola, con attenzione ai testi e ai contesti di ogni pagina biblica, assumendo un atteggiamento spirituale e orante, in funzione della vita. I Salmi sono, nella Bibbia, il laboratorio di questa preghiera. La Chiesa ne vive, approfondendone il significato cristologico: una dimensione molto cara ai Padri della Chiesa. Oggi la maniera con cui i Padri leggevano la Scrittura deve misurarsi con le acquisizioni esegetiche più mature, ma resta fondamentale e sempre valido il principio della lettura cristologica della Bibbia che, salva la corretta comprensione letterale dei testi, sa vedere oltre la “lettera”, in direzione della pienezza cristiana.  

Pregare nello Spirito 

Pregare cristianamente è pregare nello Spirito Santo. Non c’è incontro vero con Cristo che non sia anche un incontro con il suo Santo Spirito. «Nessuno può dire: “Gesù è Signore!, se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1 Cor 12, 3b). 

L’azione dello Spirito che fonda la fede muove anche la preghiera. È un’azione che si sviluppa in modo spesso sorprendente, giacché lo Spirito non è catturabile in regole e non si lascia prevedere nelle sue mosse creative. Questo sta alla base della preghiera carismatica, con tutte le sue molteplici espressioni, ben note alla Chiesa primitiva, e oggi grazie a Dio recuperate anche nell’esperienza del Rinnovamento nello Spirito Santo.  

La missione dello Spirito 

Pregare nello Spirito significa lasciarsi plasmare dalla sua azione, in ciò che caratterizza la sua missione nella Chiesa e nel mondo. Una missione che possiamo riassumere a partire dalle tre virtù teologali di fedesperanza e carità.

Circa la fede…

Sul versante della fede, la missione dello Spirito è innanzitutto quella di aprire l’animo alla verità. Egli è lo Spirito della verità. «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio» (Gv 15, 26-27). La preghiera nello Spirito è nutrita dalla fede professata e insegnata dalla Chiesa. Purtroppo non sono mancati nella storia casi di uomini e donne che si spacciavano per “spirituali” e che, in nome della loro esperienza dello Spirito, si sono messi in contrasto con il magistero della Chiesa. Nell’antichità è rimasto celebre il movimento montanista che accalappiò anche uno scrittore solido come Tertulliano. Quando è davvero lo Spirito a guidare la preghiera, essa si muove sempre in sintonia con la Dottrina insegnata autorevolmente dalla Chiesa. E non potrebbe essere diversamente, giacché è lo stesso Spirito che ha ispirato la Scrittura e assiste la Chiesa nel suo magistero: «La preghiera cristiana è sempre determinata dalla struttura della fede cristiana, nella quale risplende la verità stessa di Dio e della creatura» (cf Orationis formas, Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede su alcuni aspetti della meditazione cristiana, 1989, n.3 (=EV 11, 2683)). 

Questo aspetto della preghiera nello Spirito non implica solo la dimensione “veritativa”. Stimola anche la dimensione “estetica” (esperienza coi sensi fisici e spirituali) e quella dossologica. La verità di Dio non si riduce all’ambito concettuale, ma è evento, gloria, bellezza, splendore. Una preghiera che si incontra con la verità di Dio esplode nella lode, nell’ammirazione, nel canto. Ognuna delle perfezioni di Dio si illumina nell’animo di un vero orante e porta a dire, con san Francesco: «Tu sei bellezza» (Lodi di Dio Altissimo, FF, 261). 

Circa la carità… 

Sul versante dell’amore, c’è la seconda missione dello Spirito, il suo essere principio di comunione. Egli che, nella Trinità, è il vincolo di unità, il bacio, l’abbraccio tra Padre e Figlio, anche nella storia getta ponti di amore tra noi e Cristo e tra di noi.  Pregare nello Spirito significa dunque pregare nell’unità, facendosi uno con il corpo mistico di Cristo. A questa condizione della preghiera Gesù stesso ha fatto riferimento con espressioni esigenti. Ha garantito la potenza della preghiera quando gli oranti fanno “sinfonia”, vivendo come un cuor solo e un’anima sola: «In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 1819-20).  Ha poi addirittura vietato, dichiarandola a priori inautentica e inaccettabile, una preghiera fatta con mancanza di amore e non preceduta dalla riconciliazione fraterna: «Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5, 23-24). 

Circa la speranza… 

La terza missione dello Spirito, sul versante della speranza, è essere Colui che «rinnova la faccia della terra» (cf Sal 104, 30). Lo Spirito Santo è Spiritus creatorVeni, Creator Spiritus!   Insieme con il Figlio è all’origine delle cose, ma anche le ricrea e le fa nuove. È lo Spirito che rimette in moto la storia e la apre al bene, ogni volta che la storia si è impigliata nelle reti del male. Vale per la storia della Chiesa come per la storia del mondo. Papa Francesco sta insistendo molto su questa dimensione “innovativa” dell’azione dello Spirito (cf Omelia, Santa Messa con i movimenti ecclesiali, Piazza San Pietro, 19 maggio 2013: riportata, con altri passi del Papa, in S. MARTINEZ, Papa Francesco e lo Spirito Santo. Novità, Armonia, Missione, perché sia sempre Pentecoste, Edizioni RnS, Roma 2014).  

È lo Spirito che ci aiuta a leggere i segni dei tempi e ci spinge ad aprire vie nuove, a smuovere ciò che è bloccato, a sciogliere i nodi che tengono imbrigliate la nostra umanità e la nostra fede, additando nel futuro traguardi di salvezza e liberazione dell’umanità. Nell’azione dello Spirito è il grande segreto e il grande dinamismo della speranza. Chi prega nello Spirito Santo viene educato a diventare sempre di più un uomo di speranza, capace di futuro, responsabile verso i fratelli. La preghiera nello Spirito  

  • è il contrario di una preghiera intimista e alienante;  
  • è piuttosto responsabilizzante, fa prendere coscienza di doversi impegnare a costruire la storia secondo il cuore di Dio. La storia entra fortemente nella preghiera fatta nello Spirito;  
  • è «allo stesso tempo autenticamente personale e comunitaria; rifugge da tecniche impersonali o incentrate sull’io, capaci di produrre automatismi nei quali l’orante resta prigioniero di uno spiritualismo intimista, incapace di un’apertura libera al Dio trascendente» (Ibid.).     

Preghiera come vita 

Se si è compreso il senso cristiano della preghiera, il cuore cristiano non può non sentire il bisogno di un rapporto continuo con Dio. La preghiera assume la continuità del respiro: è il respiro dell’anima. Nel Nuovo Testamento sono almeno due i passi dove si invita alla preghiera incessante. In Luca si legge: «Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi» (cf 18, 1). La parabola è quella del giudice che si arrende all’insistenza petulante di una vedova, e mette in evidenza che Dio ha un cuore non meno arrendevole verso chi non si stanca di gridare a lui giorno e notte. Un altro passo si ritrova in Paolo, quando ai Tessalonicesi scrive: «Siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi» (cf 1 Ts 5, 16-18). È interessante che qui la letizia, la preghiera e il grazie siano presentati come atteggiamenti da coltivare costantemente: essere “sempre” lieti, pregare “incessantemente”, rendere grazie “in ogni cosa”.  Il rapporto con Dio non sopporta tempi ridotti, tanto meno marginali: è un fatto continuo.  
La storia della spiritualità cristiana si è misurata con questi moniti; come si può pregare incessantemente? Vediamo di seguito due classiche soluzioni.  

Secondo Origene e Agostino… 

Una linea è quella elaborata da Origene e ripresa da sant’Agostino. Dice Origene: «Prega incessantemente colui che unisce la preghiera alle opere e le opere alla preghiera. Soltanto così possiamo ritenere realizzabile il principio di pregare incessantemente» (De oratione, 12, 2). Agostino, a sua volta, in riferimento alle menzionate parole di Paolo, si chiede: «Sintende forse che dobbiamo stare continuamente in ginocchio o prostrati o con le mani levate per obbedire al comando di pregare incessantemente? Se intendiamo così il pregare, ritengo che non possiamo farlo senza interruzione. Ma v’è un’altra preghiera, quella interiore, che è senza interruzione, ed è il desiderio. Qualunque cosa tu faccia, se desideri quel sabato (che è il riposo in Dio), non smetti mai di pregare. Se non vuoi interrompere di pregare, non cessare di desiderare. Il tuo desiderio è continuo, continua è la tua voce. Tacerai, se smetterai di amare» (Enarrationes in Psalmos  37, 14).
Sant’Ambrogio, da parte sua, ammoniva: «La preghiera troppo prolissa spesso diventa meccanica e d’altra parte l’eccessivo distanziamento porta alla negligenza» (Tractatus de Cain et Abe Lib. 1, 9, 34). 

Secondo la spiritualità orientale… 

La seconda soluzione viene dalla spiritualità orientale della preghiera di Gesù o preghiera del cuore, che spinge a ripetere infinite volte, al ritmo del respiro, la piccola giaculatoria «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!». È quanto un monaco spiega nel primo dei racconti del celebre libro dal titolo: Racconti di un pellegrino russo; «Per “preghiera continua” non si intende altro che la cosiddetta “preghiera di Gesù” o “preghiera del cuore”, che consiste nella continua e incessante ripetizione del Nome di Gesù con le labbra, con la mente e con il cuore, durante ogni occupazione, in ogni luogo e tempo, anche nel sonno. La Preghiera si compone di queste parole: chi si abituerà a questa invocazione proverà una tale consolazione e un tal bisogno di pronunciarla di continuo, che non potrà più vivere senza di essa, ed essa fluirà spontaneamente dentro di lui». Mente, labbra, respiro: la preghiera del cuore porta a vivere di Gesù e a portare Gesù in tutte le cose. La logica ripetitiva, o forse meglio, “respirante”, della preghiera del cuore, come insegnò Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Rosarium Virginis Mariae, in Occidente si incarna specialmente nella preghiera del Rosario, quando è recitato come vera preghiera cristologica e contemplativa alla scuola di Maria (cf D. Sorrentino, Il Rosario e la nuova evangelizzazione, Paoline, Milano 2003). 

Vita come preghiera 

Un aneddoto della tradizione salesiana ricorda che, nel processo di beatificazione di san Giovanni Bosco, alla considerazione del suo inarrestabile attivismo pastorale, non mancò l’obiezione: «Ma don Bosco quando pregava?». La risposta fu data da uno che lo aveva conosciuto, e aveva la massima autorità per sciogliere la questione: Pio XI. Il Papa confutò l’obiezione con una domanda: «Ma don Bosco quando non pregava?». L’aneddoto ha un indiretto riscontro nelle parole che il Papa pronunciò in occasione del Decreto sulla eroicità delle virtù (20 febbraio 1927): «Questa infatti fu una delle più belle caratteristiche di Don Bosco, quella cioè di essere presente a tutto, affaccendato in una ressa continua di affari, tra una folla di richieste e di consultazioni, ed avere lo spirito sempre altrove, sempre in alto, dove il sereno era imperturbato sempre, dove la calma era sempre dominatrice, sempre sovrana, così che realmente in Lui si avverava il grande principio della vita cristiana: Qui laborat orat» (L’Osservatore Romano 21-22 febbraio 1927, p.1)) 

Molti santi dalla vita attiva hanno mostrato come si può essere indaffarati in mille cose, dedicandosi alla costruzione del regno di Dio, senza perdere il raccoglimento, e facendo diventare le cose stesse una preghiera. 

Ma non è soltanto una questione di armonica composizione di azione e contemplazione. L’azione stessa, la vita stessa, devono diventare preghiera. E per questo Gesù ci dà la formula, incentrandola sulla volontà di Dio: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. In quel giorno molti mi diranno: “Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demòni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?”. Ma allora io dichiarerò loro: “Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità!”» (Mt 7, 21-23). 

Il monito di Gesù non lascia scampo. È la volontà di Dio che fa insieme la differenza della vita e della preghiera. Una vita cristiana incoerente con i valori del Vangelo distrugge la stessa preghiera, e chi intendesse pregare senza impegnare la propria vita, vivrebbe in una sorta di schizofrenia spirituale. Va però insieme sottolineato che nessun impegno di vita è possibile senza la grazia del Signore, e dunque pregare per ottenerla è indispensabile. Il Papa ci ha ripetutamente ammoniti a non cadere in una tentazione che nell’antichità si espresse addirittura in un’eresia, il pelagianesimo, contro cui lottò senza quartiere sant’Agostino: era l’eresia che incentrava la vita spirituale sulla volontà, dimenticando che la volontà umana è stata pregiudicata e indebolita dal peccato. La vita dunque dev’essere coerente con la preghiera, ma la preghiera stessa ottiene la grazia perché questo avvenga. «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono!» (Mt 7, 7-11). Nel Vangelo di Luca, in queste stesse parole di Gesù si sostituisce «cose buone» con «Spirito Santo» (cf 11, 13): il dono dei doni, da cui dipende una buona preghiera ma anche una vita buona.  

Un culto spirituale, preghiera e azione 

L’esistenza cristiana è chiamata a essere tutta un culto spirituale: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12, 1). 

Un culto, quello cristiano, che non è individualistico e intimistico, ma ha un’intrinseca dimensione comunitaria e missionaria, tendendo a fare della storia stessa il luogo in cui il regno di Dio si affermi sempre più. La preghiera autentica porta all’impegno: grande sfida per quanti hanno avuto la grazia di sperimentare l’ebbrezza dello Spirito attraverso la preghiera carismatica, e devono mostrare di quanta fecondità essa sia capace anche sul versante della storia. Giustamente Salvatore Martinez ne ha fatto un principio distintivo e un obiettivo educativo: «Occorre sfatare un luogo comune che vuole i carismatici disimpegnati, ostili al mondo, quasi appartati in nicchie protettive. […] La vita carismatica è sempre preludio per la missione; i carismi sono “mezzi” attraverso cui si manifesta l’amore del Cristo Risorto, mezzi che ci permettono di rendere testimonianza efficace della sua presenza viva nella Chiesa e nel mondo» (S. Martinez, Sulle orme dello Spirito per un cammino di vita nuova, Edizioni RnS, Roma 2002, p. 33). 

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