Di Luciana Leone
Il 17 gennaio 2022 si celebra la 33ˆ Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei. La Commissione CEI per l’ecumenismo e il dialogo, nel suo Messaggio in vista della ricorrenza, invita tutti i credenti a essere generatori di speranza, in un tempo così provato, fragile, liquido, in cui tutti, singoli e comunità, rischiamo di immobilizzarci in un apatico isolamento e di essere tetragoni all’accettazione della realtà, all’accoglienza dell’altro, alla volontà della ricostruzione dei rapporti, del futuro, della società.
«Realizzerò la mia buona promessa» (Ger 29,10). È questo il versetto posto e tema del Messaggio per la 33ˆ Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, con il quale la CEI invita a fare di questa ricorrenza un’occasione per conoscere meglio la religione e la cultura ebraica, per progredire sul tema sempre urgente del dialogo interreligioso, ma anche per riflettere sulla fragilità del tempo presente e sulla tendenza, progressivamente pervasiva, dell’isolamento dei singoli e delle comunità. L’incoraggiamento che il profeta Geremia rivolge agli esiliati interpreta, con la chiave di lettura della speranza, il tempo della schiavitù e dell’esilio come quello di un “nuovo esodo”. Il passo di riferimento ben si attaglia al complesso frangente storico che stiamo vivendo: sotto il profilo del dialogo tra le religioni, si registrano spesso fenomeni d’intolleranza, di negazione della Shoah, di manifestazioni di odio contro gli ebrei e di cancellazione della memoria. La pandemia, dal canto suo, ci proietta tutti in una sorta di esilio dalla nostra vita normale, un confino nel quale la speranza fa fatica a farsi largo: lo dimostra, tra le altre cose, la crescita rapida delle depressioni, soprattutto fra i più giovani. Ricorda il Messaggio della CEI: «La comunità in esilio aveva una duplice tentazione: perdere ogni speranza e costruire una comunità chiusa, distaccata e ripiegata su se stessa. Nella pandemia, come credenti, abbiamo avuto le stesse tentazioni: perdere la speranza e chiuderci in comunità sempre più autoreferenziali. Le stesse tentazioni le proviamo di fronte alla situazione di esculturazione del fenomeno religioso (o, per lo meno, del cristianesimo): rischiamo di perdere la speranza e di creare comunità sempre più chiuse in se stesse».
Questa tentazione subdola s’infiltra nelle parrocchie, sempre più desolate; nelle Associazioni e nei Movimenti, costretti a sospendere molte delle loro attività e sempre più reticenti nel provare a incontrarsi, se pure con difficoltà e nel rispetto delle norme; nei rapporti fra i singoli, sempre più rabbiosi; nelle relazioni fra religioni, etnie, culture, sempre meno propensi a una dialettica creatrice e sempre più conflittuali.
Mettere radici in terra straniera
Le parole che Geremia invia in una lettera agli anziani deportati, ai sacerdoti, ai profeti e a tutto il popolo, suonano quasi come paradossali, considerato che Israele si trova in mezzo ai pagani, lontana dalla terra della promessa, privata del suo tempio: «Costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti; prendete moglie e mettete al mondo figli e figlie, scegliete mogli per i figli e maritate le figlie, e costoro abbiano figlie e figli. Lì moltiplicatevi e non diminuite. Cercate il benessere del paese in cui vi ho fatto deportare, e pregate per esso il Signore, perché dal benessere suo dipende il vostro» (Ger 29,5-7). È la logica dell’accettazione e dell’abbandono confidente in Dio, dello stare, con realismo, con i piedi ben piantati nel proprio presente, senza nostalgie sterili di un passato lontano, senza l’illusione che tutto sia come prima.
Moltiplicarsi, radicarsi, lavorare per il benessere del paese che rende schiavi: quanto sarà stato difficile accogliere questo monito per un popolo che avrebbe preferito che la “lingua si attaccasse al palato, piuttosto che cantare in terra straniera e dimenticare Gerusalemme” (cf Salmo 137). Osserva la CEI: «“Mettere radici”, favorire la pace e la prosperità di tutti, ripartire dalle cose fondamentali e semplici della vita (lavoro, relazioni, casa, famiglia…): ecco la chiamata che Dio affida ai suoi. Alle indicazioni su come vivere il tempo dell’esilio è legata una promessa per il futuro: chi sceglie di conservare tutto e resta attaccato a un passato glorioso, rischia di perdere anche se stesso, mentre chi è disponibile ad abbandonare ogni falsa sicurezza riavrà i suoi giorni».
La sfida delle religioni: uscire dall’autoreferenzialità.
Anche per le religioni, vale l’incoraggiamento del profeta: la posizione difensiva dell’autoreferenzialità ci costringe all’esilio, ci rende tutti apolidi, proscritti, depressi, più poveri, incapaci di profezia e di speranza, in una parola, immobili. Al contrario, osserva la CEI, «come cristiani e come ebrei possiamo aiutarci ad affrontare tale sfida, perché la Promessa resta costante nella storia. Il Signore lavora per “rigenerare”, per “far ricominciare”. Egli è fedele e non abbandona il suo popolo. Ogni crisi è una buona occasione, un tempo favorevole da “non sprecare”: essere seminatori di speranza». Come non ricordare alcuni indicativi passaggi offerti dal Magistero della Chiesa, attraverso gli ultimi tre pontefici, a partire dallo storico discorso di san Giovanni Paolo II, nella visita alla Sinagoga del 1986; in quella occasione il Pontefice si espresse come nessuno aveva fatto in precedenza, dicendo: «La religione ebraica non ci è “estrinseca”, ma in un certo qual modo, è “intrinseca” alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori» (san Giovanni Paolo II, Discorso, Sinagoga della città di Roma, 13 aprile 1986). Benedetto XVI ha ripreso il tema della fraternità, rintracciandone nelle Scritture «il fondamento più solido e perenne, in base al quale veniamo costantemente posti davanti alle nostre radici comuni, alla storia e al ricco patrimonio spirituale che condividiamo (Benedetto XVI, Discorso, Sinagoga di Roma, 17 gennaio 2010). Per venire ai nostri giorni, papa Francesco così si è espresso, dopo avere richiamato le storiche affermazioni di Giovanni Paolo II: «Tutti quanti apparteniamo a un’unica famiglia, la famiglia di Dio, il quale ci accompagna e ci protegge come suo popolo» (Papa Francesco, Discorso alla comunità ebraica, Sinagoga di Roma, 17 gennaio 2016). Al termine del suo discorso, papa Francesco ebbe a citare proprio un versetto tratto dalla lettera di Geremia agi esiliati: «Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore –, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11).
Dialogo, preghiera, conoscenza reciproca, porte dell’accoglienza.
Il Messaggio della Commissione per l’ecumenismo e il dialogo della CEI introduce l’ulteriore tema del rapporto con lo straniero, estremamente urgente e attuale, sottolineando come Geremia inviti gli esiliati a darsi da fare per il paese nel quale si trovano, non solo in ragione del fatto che dal benessere di quel paese discende anche quello di Israele, ma esortandoli a pregare per esso: «Cercate il benessere del paese in cui vi ho fatto deportare, e pregate per esso il Signore (cf 29,7)». Non è irrilevante il fatto che il Dio d’Israele non attribuisca a Babilonia la responsabilità della deportazione, ma ne avochi a sé l’onere, lasciando intendere che non sarà fruttuoso in alcun modo l’odio tra i due popoli, che tale schiavitù risponda a una precisa logica e che occorra entrare in questa logica per fare di un evento così drammatico un’occasione di conversione e di crescita. Puntualizza la CEI «che “Colui che viene da fuori”, l’ospite e lo straniero, è una risorsa per il paese, che lo straniero è una benedizione e che l’ospitalità, così centrale nelle tradizioni ebraica e cristiana, può essere lo “stile” con cui oggi i credenti stanno nella storia e animano la società».
La speranza alla quale ci rinviano le parole di Geremia e il Messaggio della CEI deve trovare il suo rilancio in un rinnovato modo di abitare la terra, come ripetutamente ci esorta papa Francesco: una norma esistenziale che si fonda sul dialogo, di cui papa Francesco indica tre peculiari proprietà: «Umiltà, mitezza, farsi tutto a tutti» (Francesco, Meditazione mattutina, Cappella Domus Sanctae Marthae, 24 gennaio 2014).
Cosa possiamo fare, noi?
Non tutti, è evidente, siamo nelle condizioni di realizzare piccoli o grandi gesti di fraternità, tuttavia ciascuno di noi può assumersi, in prima istanza, l’impegno della preghiera perché le religioni, tutte, abbiano l’umiltà e il coraggio di conoscersi, confrontarsi, dialogare, rispettarsi. Se l’impegno della preghiera può rappresentare un traguardo raggiungibile – per quanto non scontato – ci sono anche successivi passi di unità che possiamo promuovere dal basso, cominciando dalle nostre famiglie e dall’educazione dei nostri figli, dalla riflessione e dall’esercizio dell’ospitalità nelle comunità locali, dalle nostre attività, dai nostri profili social: l’accoglienza dello straniero, il dialogo con tutti, la stigmatizzazione di ogni forma di razzismo non sono scelte facoltative ma opzioni fondamentali per ogni cristiano che voglia dirsi tale.
Quella del 17 gennaio è una Giornata nella quale ricordare il vincolo particolare che lega la Chiesa e Israele, con la consapevolezza, prosegue il testo, che «Dio continua a operare nel popolo dell’Antica Alleanza e fa nascere tesori di saggezza che scaturiscono dal suo incontro con la Parola divina (EG 249)».
La conclusione del Messaggio è indirizzata direttamente alle comunità ebraiche italiane: «Ci rivolgiamo infine a voi […], ringraziandovi per quanto rappresentate per noi, e chiedendovi di sentirvi partecipi di questo itinerario, nel quale – come ha affermato Papa Francesco – possiamo “aiutarci vicendevolmente a sviscerare le ricchezze della Parola, come pure condividere molte convinzioni etiche e la comune preoccupazione per la giustizia e lo sviluppo dei popoli”» (EG 249).
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