Nell’ambito della riflessione a puntate sui temi della paternità e della vocazione, don Davide Maloberti considera il tema della chiamata di Dio, con un occhio particolare ai giovani, considerando la figura di san Giuseppe, santo spesso dimenticato, al quale la Chiesa ha dedicato in modo speciale l’anno papena trascorso. La vocazione non risponde mai a una fede illogica, né chiede l’impossibile, talvolta a dispetto delle apparenze; include sempre, però, un margine di rischio. Senza quel rischio non si partirà mai. Senza quel rischio non ci si può aprire alla vita e all’amore.
In ufficio, nella sala in cui facciamo le riunioni o incontriamo le persone, accanto al telefono, abbiamo collocato una piccola statua di san Giuseppe. Sono riuscito ad averla da un amico sagrestano; nella sua chiesa questa statua di gesso giaceva impolverata in un armadio. Poi, qualche giorno dopo averla esposta, scoprimmo il progetto di Papa Francesco, reso noto a fine 2020, di dedicare un Anno speciale a san Giuseppe nel 150° anniversario della sua proclamazione come patrono della Chiesa universale.
Oggi, quando ci ritroviamo a discutere in questa sala, parliamo tutti a dovuta distanza, con le mascherine e separati da un dispositivo in plexiglas; lui – da quella statuetta – ci osserva incuriosito. Quando l’ho portata in ufficio e abbiamo deciso dove collocarla, mi è tornata in mente l’esperienza di un amico che, dopo aver esposto nel suo luogo di lavoro un’immagine di san Giuseppe, raccontava che nella realtà in cui era inserito non aveva più avuto problemi economici.
Che cosa c’entra san Giuseppe con noi?
Da qui, una domanda: ma cosa c’entra san Giuseppe con la nostra vita, con il nostro lavoro, con i nostri progetti? Che rapporto può avere con noi? Per capirlo, possiamo rileggere il Messaggio del Papa per la Giornata mondiale delle vocazioni del 25 aprile scorso, incentrato, guarda caso, sul tema “San Giuseppe: il sogno della vocazione”.
Rimotivarsi sempre
Probabilmente Giuseppe non era l’uomo anziano che i dipinti che vediamo in molte chiese ci farebbero pensare. Certo, aveva più anni di Maria, ma anche lui era alla ricerca della sua strada, della sua vocazione, un po’ come tutti noi. Ed anche chi la sua strada l’ha già trovata, sa fin troppo bene che ogni scelta viene continuamente rimessa in discussione dalla vita. È come se i fatti che viviamo, continuamente ci chiedessero: ma tu sei felice? Chi te l’ha fatta fare quella scelta? La rifaresti oggi dopo tanto tempo? La vita è un continuo scavare dentro di noi, ascoltare e rimotivarci aperti alla forza dello Spirito Santo.
Un compito irrealizzabile…
Nel suo libro pubblicato nel 2011 “Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione”, Papa Benedetto XVI, parlando dell’ascensione di Gesù al Cielo, scriveva che gli apostoli «avevano ricevuto un compito apparentemente irrealizzabile, un compito che andava al di là delle loro forze». Ed è verissimo. Ciò che Dio ci chiede o ci chiederà nella vita è sempre troppo grande. Lui lo sa eppure non si stanca di agire in questo modo.
Nel 1993, durante un viaggio in Sicilia, con alcuni amici, incuriositi dall’esperienza delle cellule di evangelizzazione, avevamo incontrato a Ragusa don Salvatore Tumino, un prete strapieno di entusiasmo, morto prematuramente nel 2002. Ci aveva accolto in casa sua e ci spiegava come tanti giovani che si avvicinavano all’esperienza del Rinnovamento nello Spirito e coinvolti attivamente nell’evangelizzazione, si rendevano conto che il servizio che era loro chiesto richiedeva dedizione, gioia, amore, e di questo loro non erano capaci appieno. Così, si aprivano a Dio nella preghiera soprattutto attraverso l’esperienza dell’adorazione e accadevano meraviglie nelle loro vite. Avevano sete di amore e l’amore di Dio entrava in loro.
Dio non ha paura di chiedere
Dio non ha avuto timore di chiedere a Giuseppe di buttarsi in un compito “apparentemente irrealizzabile”. Gli ha chiesto di entrare a occhi chiusi, ma con tutta la sua umanità e le sue energie, in un progetto che lui non aveva neppure immaginato. Giuseppe era incerto se accettare perché temeva di non esserne all’altezza, di non essere degno di stare accanto a Maria e al Bambino, il Figlio di Dio, che sarebbe nato. Ha pensato che forse era meglio interrompere subito quel fidanzamento. La vita gli avrebbe offerto sicuramente altre prospettive e Dio, con la sua enorme creatività, avrebbe provveduto in altro modo a trovare un padre terreno a Gesù. E invece, con la sua tenacia, Dio è andato di nuovo a cercarlo.
Nelle avventure della vita bisogna usare la testa, Dio non chiede una fede assurda, senza ragione, eppure c’è un momento in cui bisogna rischiare. Senza quel rischio non si partirà mai. Non è mai bene fare paragoni, eppure oggi il calo delle vocazioni religiose e dei matrimoni, in un contesto complesso e molto diverso dai decenni scorsi, nasce proprio dal non vedere più la vita come una vocazione, una chiamata, un dono di Dio a cui rispondere.
La vocazione è generare
E in che direzione deve muoversi la nostra vocazione? La vocazione è il contrario del chiudersi in se stessi, vocazione è generare, è diventare padre e madre. «Dio vede il cuore – sono le parole del Papa – e in san Giuseppe ha riconosciuto un cuore di padre, capace di dare e generare vita nella quotidianità. A questo tendono le vocazioni: a generare e rigenerare vite ogni giorno. Il Signore desidera plasmare cuori di padri, cuori di madri: cuori aperti, capaci di grandi slanci, generosi nel donarsi, compassionevoli nel consolare le angosce e saldi per rafforzare le speranze».
La paternità e la maternità possono spaventare, ma più si vivono, sul piano fisico o anche spirituale, nella propria missione, nel proprio lavoro, nella famiglia, nel servizio in molteplici ambiti, più danno gioia perché aprono all’esperienza dell’amore di Dio che è continuo donarsi.
«Se chiedessimo alle persone – scrive Francesco – di esprimere in una sola parola il sogno della vita, non sarebbe difficile immaginare la risposta: “amore”. È l’amore a dare senso alla vita, perché ne rivela il mistero. La vita, infatti, si ha solo se si dà, si possiede davvero solo se si dona pienamente». La vera risposta alle nostre domande è vivere un cammino per imparare ad amare.
Le tre parole chiave di una vocazione
Nel Messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, Papa Francesco evidenzia le tre parole chiave per la vocazione che ci suggerisce san Giuseppe.
Il sogno: «Tutti nella vita sognano di realizzarsi. Ed è giusto nutrire grandi attese, aspettative alte che traguardi effimeri – come il successo, il denaro, il divertimento – non riescono ad appagare…».
«È l’amore che dà senso alla vita perché ne rivela il mistero. La vita, infatti, si ha solo se si dà, si possiede davvero solo se si dona pienamente». San Giuseppe, attraverso i sogni che Dio gli ha ispirato, ha fatto della sua esistenza un dono. I sogni portarono Giuseppe dentro avventure che mai avrebbe immaginato.
Il servizio: «Dai Vangeli emerge che san Giuseppe visse in tutto per gli altri e mai per se stesso. Il Popolo santo di Dio lo chiama “castissimo sposo”, svelando con ciò la sua capacità di amare senza trattenere nulla…». «Dove una vocazione matrimoniale, celibataria o verginale non giunge alla maturazione del dono di sé, fermandosi solo alla logica del sacrificio, allora invece di farsi segno della bellezza e della gioia dell’amore rischia di esprimere infelicità, tristezza e frustrazione».
La fedeltà: San Giuseppe medita, pondera. Non si lascia dominare dalla fretta, non cede alla tentazione di prendere decisioni avventate. Tutto coltiva nella pazienza. Sa che l’esistenza si edifica solo su una continua adesione alle grandi scelte. Questa fedeltà si alimenta della fedeltà di Dio ed è il segreto della gioia.
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