Lo storico Flavio Felice, professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università del Molise, riflette sul tema “Il discernimento applicato alla storia, lettura dei segni dei tempi”. L’intervento, tenuto in occasione di una Convocazione nazionale RnS, affronta il tema del discernimento sviluppandone quattro sfaccettature: l’azione teologale, l’assunzione di responsabilità, la libertà di coscienza e l’azione politica dei cristiani.
Flavio Felice
Le “ricadute” del discernimento
Chi come me si occupa professionalmente di storia delle idee economico-politiche e lo fa insegnando in un Istituto di teologia pastorale, non può non farsi interpellare da un tema come “la lettura dei segni dei tempi” e non sentirlo come una sfida a leggere dal di dentro, dal profondo dell’anima, alcune riflessioni di carattere teologico, antropologico, sociologico e infine storico-politico. Si può guardare al tema del discernimento sotto quattro sfaccettature:
- il discernimento come azione teologale, non dunque l’esercizio della mera arte del consiglio, ma un atto a tutti gli effetti teologale, che investe il nostro rapporto e la nostra conoscenza di Dio Padre, nonché la nostra capacità di rendere ragione della nostra fede;
- il discernimento come assunzione di responsabilità, un atto teologale compiuto da un soggetto creato a immagine e somiglianza di Dio, dunque per vocazione chiamato a partecipare all’opera creatrice del Padre e a rispondere al Padre e al prossimo di tale alto mandato. Questo significa essere responsabili, saper dare una risposta all’alto mandato che ci viene affidato;
- il discernimento come massima espressione della libertà di coscienza. Una coscienza educata e orientata dalla fede, che risponde alla chiamata del Padre, che non ammette intromissioni da parte di nessuno che non sia in sintonia con il Padre, cioè che non sia disposto a salire sulla croce insieme al prossimo con il quale pratica l’atto teologale del discernimento. La persona educata alla fede esprime il suo fiat anche se imprigionata, anche se costretta in un campo di concentramento. In tal senso non esiste comunità e un’autorità all’interno della comunità che possa intorbidire la cristallina freschezza di un “sì” pronunciato da chi esprime l’immagine e la somiglianza del Padre celeste;
- il discernimento come fondamento dell’azione politica dei cristiani. In un momento di così grave crisi istituzionale i cristiani sono chiamati a esprimere con la propria vita e le proprie scelte di vita la rilevanza della loro presenza nei particolari mondi vitali.
Le considerazioni sul discernimento come atto teologale, dunque, approdano sulle sponde della riflessione sulla sua rilevanza politica e sociale del vivere cristiano; in pratica sulla sua capacità di essere sorgente di istituzioni politiche, economiche, sociali, ecclesiali nelle quali sia possibile per il cristiano praticare la virtù delle virtù: la caritas, il nome più intimo di Dio Padre che manifesta la verità sull’uomo in quanto creato a immagine e somiglianza di Dio amore. Un percorso che sta alla base del modo di intendere il formarsi stesso ad esempio della Dottrina sociale della Chiesa e la sua capacità di implementarsi nella storia, farsi storia con azioni concrete.
Il discernimento come azione teologale
Perché la riflessione teologico pastorale possa offrire strumenti validi, bisogna che la dignità teologica di ciò che avviene nella Chiesa, nelle contingenze della storia, sia correttamente intesa alla luce di Cristo che è via della Chiesa, e dello Spirito che suscita la quotidiana memoria di Lui nel popolo dei credenti. Questa è un’affermazione di principio. Il Nuovo Testamento attesta la necessità di cogliere nello Spirito ciò che Egli “dice alle Chiese”, cioè le indicazioni necessarie allo sviluppo della vita nelle comunità. Questo dato scritturistico conferma come le esigenze del discernimento nello Spirito si facciano ineludibili specialmente a livello della prassi comunitaria: non ne possiamo fare a meno, e specialmente in quei contesti in cui gli schemi e i modelli del passato si rivelano inadeguati o comunque carenti, cioè quasi sempre. Quanto da sempre la spiritualità cristiana ha raccomandato sul piano delle scelte personali, va tematizzato e assunto come compito proprio sul piano delle scelte operative comunitarie, cioè sul piano della teologia pastorale. Il bene della persona è il bene della comunità ma non sempre vale il contrario: non è detto che un bene ipotetico della comunità coincida con il bene della persona, e dal momento che la comunità è per la persona e non la persona per la comunità, allora noi dobbiamo partire esattamente dal bene delle persone. In un certo senso l’istanza e la pratica del discernimento assurge a cifra sintetica del metodo proprio della teologia pastorale. Ma che cosa vuol dire “fare discernimento”? Significa rendersi sensibili all’azione dello Spirito nella comunità degli uomini d’oggi per favorire quelle realtà e quei processi che appaiono mossi dallo Spirito di Dio e nel contempo per smascherare e contrastare quelle realtà e quei processi culturali che appaiono contrari allo Spirito evangelico. Dunque, da un lato favorire e dall’altro contrastare; la prospettiva propria del discernere è in vista della prassi, dell’azione, del nostro operare nelle varie comunità. Non si limita a interpretare e valutare, né esibisce un’interpretazione prefabbricata da usare quale pietra di paragone; non abbiamo un modello, lo scopriamo di volta in volta, di giorno in giorno, dal rapporto personale con ciascuno, ma si comprende agendo e si agisce comprendendo. Questo concetto contrasta con un metodo che spesso viene indicato come l’approdo alla modernità del pensiero sociale cristiano, cioè il metodo induttivo – vedere, giudicare, agire. Affermare invece che comprendo agendo, e agendo comprendo la realtà, significa negare questa realtà perché non esiste un vedere che non sia un giudicare e non esiste un giudicare che non sia già un’azione. Vedere, giudicare e agire sono un unico processo che è esattamente il processo del discernimento. La storicità dell’uomo e della rivelazione divina, la libertà dello Spirito che si fa presente e attivo nella concretezza di una singola vicenda umana, non consentono di intendere il discernimento tuttavia anche come applicazione di formule generali a casi particolari; vedere, giudicare, agire, è un metodo tipicamente induttivista, invece il metodo deduttivo consiste nel partire da affermazioni astratte, generiche per poterle poi applicare nei casi particolari. Il giudizio pastorale di fede emerge da un’articolazione complessa, dove complessità non significa ovviamente stravaganza e inafferrabilità ma necessità di riconoscere, far emergere il kairos – l’opportunità – che si è colto e l’amore fedele di Dio che vuole salvare. Tale incontro plasma assai concretamente la stessa creatività, che pur rimanendo definita e limitata nella sua storicità si esprime in forme sempre nuove e diverse. Ma il frutto del discernimento è comunque l’azione, la decisione. Non si fanno oggetto di discernimento affermazioni dottrinali e neppure questioni etiche di principio; un atto di discernimento non è mai una disquisizione accademica che si conclude con la vittoria di una parte sull’altra, esso è invece una scelta pratica motivata dalla fede su una questione concreta e la cui soluzione comporta per tutti una seria conversione al Vangelo. Per tutti, non solo per chi è oggetto del discernimento ma anche per chi è soggetto.
La sapienza della croce
Essendo allora una lettura cristologica della realtà – partiamo dal Vangelo – sotto l’influsso dello Spirito, il discernimento appare così fin dall’inizio strappato all’equivoco di una interpretazione che lo accomuni alla umana prudenza – il cosiddetto buon consiglio – o ancora più in basso al buonsenso, al senso comune. San Paolo afferma chiaramente la natura carismatica del discernimento, la sua specificità cristiana di dono dello Spirito, e per questo il discernimento degli spiriti, la capacità cioè di individuare i carismi autentici, annoverato dall’Apostolo tra i doni dello Spirito che consentono di mettere in pratica la volontà di Dio (cf 1Cor 12, 4-11), è una cosa molto impegnativa. Questo discernimento manifesta sul piano della vita e dell’azione della comunità cristiana una sapienza particolare, non quella dei professorini o dei professoroni, non quella dei saggi, ma quella della croce. La sapienza della croce, «scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani» (1 Cor 1,23), una sapienza che non è di questo mondo: consiste cioè nella capacità, che è dono dello Spirito, di conoscere nel Figlio del carpentiere il Messia promesso, nel crocifisso il Figlio di Dio. Questa pregnanza cristologica ha carattere di imprescindibilità, non possiamo farne a meno. Senza la sapienza della croce ogni forma del discernere scadrebbe nella figura inadeguata del giudizio prudenziale umano, che in sé è apprezzabile – quando è apprezzabile, perché non sempre il giudizio lo è – ma non per questo possiamo dire sia il discernimento cristiano. Anzi si tratterebbe di un giudizio esposto al rischio di degenerare negli equilibrismi del compromesso e dell’artificio diplomatico, ovvero nella odiosa imposizione della volontà altrui. Il discernimento dunque è un atto teologale. L’origine e la qualità carismatica del discernimento non diminuiscono ma qualificano ed esaltano l’impegno sul piano umano; non si dà discernimento senza un tirocinio diligente e costante: dobbiamo essere allenati nella sapienza della croce. Senza la coltivazione attenta e il progressivo sviluppo degli atteggiamenti e dei requisiti adeguati – che non si possono considerare in alcun modo scontati né mai definitivamente acquisiti – non si impara mai abbastanza. Non si dà discernimento cristianamente autentico se chi è chiamato nella e dalla comunità a guidare nel processo di discernimento i propri fratelli, non assume la sapienza della croce che è condivisione della medesima. Assumere la sapienza della croce significa condividere quella croce con il fratello: chi insomma non è pronto a morire per me hic et nunc, cioè adesso e qui, non è degno di guidarmi nel discernimento, fosse anche l’autorità massima della mia comunità. L’azione dello Spirito Santo in noi non soffoca allora, in questo caso, né violenta la nostra normale attività psicologica; questo dinamismo deve passare attraverso la coscientizzazione di una mente che pensa, di una coscienza che discerne e decide, di una volontà che a poco a poco sedimenta un tipo di sapienza e di mentalità che sono tipiche di Cristo. E la cifra che misura la conformità del mio vivere con la mentalità di Cristo è sempre e soltanto la croce: «Da questo vi riconosceranno come miei discepoli, che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (cf Gv 14, 34-35). Se vogliamo amarci come Gesù ci ha amati, ossia se vogliamo entrare nella sequela di Cristo, allora dobbiamo essere disposti a salire sulla croce con il nostro fratello di comunità, così come Gesù vi è salito per amore di ogni singolo soggetto dell’umanità; Gesù aveva e ha l’umanità, noi abbiamo la nostra comunità. Non si tratta dunque di una esplicitazione meccanica, e neppure del mero esercizio dell’autorità, ma occorre un lavoro lungo di assimilazione, di capacità creativa e di annullamento di sé. Si tratta di un’azione libera e responsabile storicamente situata: non c’è il manuale del buon discernimento.
Il discernimento come assunzione di responsabilità
In questi termini il discernimento assume una valenza tutta particolare, è l’atto attraverso il quale esprimiamo la nostra capacità di assumerci la responsabilità di fronte alla realtà del mondo ecclesiale e civile. Con il discernimento i vescovi hanno indicato e riproposto uno dei modi di essere Chiesa appropriato, efficace e vero. Sarebbe però un errore pensare che sia soltanto metodo, il discernimento infatti è uno dei modi con cui l’amore che si fa conoscenza e dunque si orienta alla decisione, si concretizza. Afferma Benedetto XVI il 12 ottobre 2010, in occasione della 46ͣ Settimana sociale dei cattolici italiani: «Si tratta, indubbiamente, di un metodo di lavoro innovativo che assume come punto di partenza le esperienze in atto, per riconoscere e valorizzare le potenzialità culturali, spirituali e morali inscritte nel nostro tempo, pur così complesso» (Messaggio del Santo Padre al cardinale Angelo Bagnasco). Queste parole ci confortano ulteriormente quando Benedetto XVI sottolinea che «sarebbe illusorio delegare la ricerca di soluzioni soltanto alle pubbliche autorità» o anche alle autorità religiose, e continua: «i soggetti politici, il mondo dell’impresa, le organizzazioni sindacali, gli operatori sociali e tutti i cittadini in quanto singoli e in forma associata, sono chiamati a maturare una forte capacità di analisi, di lungimiranza e di partecipazione». Il regime di discernimento che proviamo a praticare esige un’alta misura di vita spirituale. Cristo logos è la risposta piena e definitiva alle domande ultime della ragione aperta, ha bisogno di non scivolare sulle cose e di usarle malamente, ma di intus-legere, di “entrarci dentro” per conoscere e capire il loro essere e il loro significato. E dunque senza questo primato della vita spirituale non esiste possibilità di presenza dei cattolici ovunque siano nella società, perché non possono discernere, non sono significativi, non sono visibili, non sono riconoscibili nella sequela. Questa è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, a una speranza e a una possibilità concreta di bene comune per il nostro paese, per l’Italia, e per tutte le realtà civili ed ecclesiali nelle quali operiamo. Non individui ma persone inserite in relazioni forti, stabili, convinte, vissute con generosità, che sanno coniugare un pensare di sistema – che c’è già – resistendo alla tentazione di fuggire verso progetti utopistici e rifiutandosi di converso di continuare a fare per il mero gusto di fare quello che hanno sempre fatto a volte per pigrizia a volte per paura.
Il discernimento come espressione della libertà di coscienza
Assumendo il dato teologico pastorale, è necessario affrontare un nodo nevralgico dell’analisi sociale contemporanea rinviando ad alcuni autori che hanno profondamente segnato il cammino dei cristiani in Europa e nel mondo. Partiamo dal presupposto che ragione critica, pluralismo e tolleranza sono le linee portanti della nostra tradizione; esiti essi stessi di tentativi ed errori, non sempre egemoni, questi valori per periodi più o meno lunghi sono stati avversati, messi in ombra, calpestati. Ma sono di continuo riemersi: l’albero tagliato è rinato, vuol dire che le sue radici erano solide. Ed esse affondano nella cultura greca da una parte e nel messaggio cristiano dall’altra. È un pensatore laico, il filosofo austriaco Karl Popper, a riconoscere il valore che la tradizione cristiana attribuisce alla coscienza dei singoli individui. Scrive: «Per un umanitario e soprattutto per un cristiano non esiste uomo che sia più importante di un altro»; e continua: «Riconosco che gran parte dei nostri scopi e fini occidentali come l’umanitarismo, la libertà, l’uguaglianza li dobbiamo attribuire all’influsso del cristianesimo. Ma allo stesso tempo bisogna anche tener presente che il solo atteggiamento razionale, il solo atteggiamento cristiano anche nei confronti della storia della libertà, è che siamo noi stessi responsabili di essa, allo stesso modo che siamo responsabili di ciò che facciamo delle nostre vite, e soltanto la nostra coscienza, non il nostro successo mondano, può guidarci. Il metro del successo storico appare incompatibile con lo spirito del cristianesimo. Se noi partiamo dall’idea che il successo storico sia la cifra del nostro vivere testimoni del cristianesimo, stiamo sbagliando strada. I primi cristiani ritenevano che è la coscienza che deve guidare il potere, e non viceversa… La coscienza di ogni singola persona unita con l’altruismo è diventata la base della nostra civiltà occidentale. È la dottrina centrale del cristianesimo – scrive Popper: “ama il prossimo tuo”, non “ama la tua tribù”». Ed è stata questa, scaturita dal cristianesimo, una rivoluzione apportata nell’ambito della sfera civile, politica ed economica. Sulla stessa linea, ad esempio, la dottrina etica centrale di un altro filosofo quale Immanuel Kant: «Devi sempre riconoscere che gli individui umani sono fini e che non devi mai usarli come meri mezzi ai tuoi fini». Conclude Popper: «Non c’è alcun altro pensiero che abbia avuto tanta influenza nello sviluppo morale dell’uomo. Vi chiedo: cosa sarebbe stata e cosa sarebbe l’Europa senza il cristianesimo?». Questo pensiero di Popper sul valore del cristianesimo, sul fatto che il cristianesimo dà libera e responsabile coscienza a ogni singola persona, è strettamente collegato alle idee di tanti altri autori. È nell’insegnamento di Cristo, e successivamente di san Paolo, che scaturisce l’idea che l’uomo è un individuo in relazione a Dio e che questa relazione lo rende “persona”. L’anima individuale, la coscienza di ogni uomo riceve valore eterno dalla sua relazione filiale con Dio, una relazione su cui si fonda, poi, l’ideale di fratellanza umana: uniti a Cristo, tutti gli uomini sono liberi e fratelli.
I cristiani e lo Stato
Un altro autore, Dupont, afferma che il valore infinito dell’individuo implica al tempo stesso il ridimensionamento, la svalutazione del mondo così com’è; si crea perciò un dualismo, una tensione che è costituita dal cristianesimo e che attraversa tutta la storia. E dice l’apologeta romano Lattanzio: «Nessuno agli occhi di Dio è schiavo né padrone, siamo tutti suoi figli». Un ideale che pur tra vicissitudini e compromissorie anche torbide tra tentazioni teocratiche, ha esercitato nell’evoluzione storica una pressione a volte travolgente sull’elemento mondano autentico. «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22, 21b). Con questa espressione, con questo editto religioso, il potere politico veniva desacralizzato, l’ordine mondano relativizzato e le richieste di Cesare sottoposte a un giudizio di legittimità da parte di una inviolabile coscienza. Su questa base Origine, padre della Chiesa, poteva giustificare contro il filosofo Celso il rifiuto da parte dei cristiani di associarsi al culto dell’imperatore e di uccidere in obbedienza dei suoi ordini. Basterebbe pensare alla Lettera a Diogneto, per capire qual è il posto dei cristiani: essi rispettano le leggi, si riconoscono nelle leggi, ma sono pronti anche a cambiarle, sono pronti a ribellarsi alla legge come quando si cercava di imporre loro di bruciare l’incenso a Cesare. I cristiani non incensano il potere. Plinio il Giovane, quando era governatore della Bitinia, invia un resoconto all’imperatore Traiano dove gli notifica di aver condannato a morte tutti quei cristiani che si erano rifiutati di acclamare Cesare come signore, kyrios, kaiser, e di maledire Cristo. Per il cristiano solo Dio è il Signore, l’Assoluto; lo Stato agli occhi del cristiano non è nulla di assoluto. Kaiser non è Kyrios, il capo dello Stato non è il Signore! Ecco dunque “una spina nella carne” del potere politico, con le sue pretese onnivore: un principio religioso e insieme etico sorgente inesauribile di una miriade di opere. Da questa prospettiva il cristianesimo con le sue chiese è stato l’evento più importante dell’occidente. Per decreto religioso lo Stato non può essere tutto, come è scritto «ubi spiritus Dei ibi libertas, dove c’è lo spirito del Signore c’è libertà» (2 Cor 3, 17b). Alla base del riflettere sul discernimento, sulla capacità di cogliere nello Spirito la nostra dimensione operativa, dobbiamo mettere necessariamente il tema della libertà, perché è un dato ineludibile nella nostra vita.
Il discernimento come fondamento dell’azione politica
A questo punto la libertà di coscienza produce effetti nella sfera civile, e anche nella sfera politica. Se, come ci ha insegnato Benedetto XVI, alla politica spetta il primato sulla finanza e sull’economia, all’etica spetta il compito di orientare le scelte degli attori sociali; alla «via istituzionale della carità» (Caritas in veritate, n. 7) – questo è il nome che Benedetto XVI dà alla politica – compete la declinazione plurale del contenuto materiale del bene comune. Questa competenza le deriva non in forza del potere coercitivo dello Stato, bensì in virtù della prospettiva antropologica che innerva e qualifica eticamente le scelte di coloro che operano nelle istituzioni e nelle comunità. E il fatto che per il cristiano lo Stato non è nulla di assoluto, poi, mutatis mutandis, vale anche per le nostre comunità. Le virtù non si impongono per decreto, non si impongono per autorità – un elemento fondamentale nell’opera di discernimento –; un sistema che renda impossibile il male, una comunità nella quale sia impossibile la realizzazione del male, dallo Stato alle ultime realtà comunitarie, rappresenta la sempiterna tentazione del serpente, già stigmatizzata da Giovanni Paolo II e poi denunciata con forza da Benedetto XVI nella Caritas in Veritate, una sorta di fatale scorciatoia che ci protegga dai fastidi dell’umana contingenza. E qui entra in gioco un ulteriore argomento: le ragioni della democrazia, argomento centrale anche per la vita all’interno delle nostre comunità di credenti. Democrazia che nella prospettiva della Dottrina sociale della Chiesa non è intesa soltanto come sistema politico, ma anche come atteggiamento mentale e insieme di costumi e consuetudini. Ecco allora che un simile sistema istituzionale quale la democrazia, necessita di un postulato: formare società di cittadini liberi che insieme perseguono il bene comune. Il bene comune più immediato – non ancora sufficiente per noi cristiani, ma indubbiamente necessario e senza il quale non possiamo andare da nessuna parte – è il riconoscimento reciproco delle regole del gioco, che si traducono in forme istituzionali. Nella prospettiva della Dottrina sociale della Chiesa, allora, sotto il profilo teorico, dire che la democrazia è il governo del popolo risulta del tutto insoddisfacente – è anche una cattiva traduzione dal greco, in effetti – perché il popolo esiste nella misura in cui si considerano le questioni esistenziali delle singole persone: io non ho mai stretto la mano al popolo; nessuno, solo i dittatori pretendono di parlare a nome del popolo; noi siamo abituati a incontrare persone in carne e ossa, a stringere le mani a persone che si relazionano l’un l’altra politicamente e rispondono alle reciproche aspettative ricorrendo alle istituzioni politiche, economiche e culturali. Luigi Sturzo, autore al quale sono particolarmente legato, scrive: «La base del fatto sociale è da ricercarsi solo nell’individuo umano preso nella sua concretezza e complessità e nella sua originaria irrisolvibilità. In concreto si danno solo individui in società: solo gli individui soffrono, sperano, gioiscono, ricercano, amano, odiano».
In difesa della dignità umana
Chi dunque sostiene che sotto il profilo teorico la democrazia è la via istituzionale della carità anche cristianamente intesa, comunque mai canonizzata, non può non sottolineare l’importanza delle regole del gioco, cioè del rispetto delle istituzioni, che per alcuni sono norme dedotte dal diritto naturale, mentre per altri sono regole convenzionali sedimentate nella storia e confermate dall’esperienza. Regole convenzionali e procedure che diventano istituzioni, senza le quali – secondo Benedetto XVI – non possiamo vivere caritatevolmente l’esperienza politica e l’esperienza civile. Saranno proprio le istituzioni a difesa della dignità della persona, quelle che dimostreremo di sapere costruire e difendere, la cifra della nostra capacità di testimoniare un’azione politica cristianamente orientata al principio di solidarietà. Una promozione, una difesa della persona che dovranno concretizzarsi sul piano istituzionale ricorrendo a strumenti quali i partiti, i sindacati, le associazioni, le istituzioni, i movimenti – che noi stessi avremo saputo costruire e rendere disponibili a tutti i cittadini a partire dalla capacità di coagulare il consenso democratico intorno alle proposte politiche, battendo di conseguenza sul terreno della democrazia quelle dei nostri avversari. Proposte tuttavia che possono esprimersi anche dall’opposizione e condurci fino all’obiezione di coscienza, e a quella forma estrema di obiezione di coscienza che padre Massimiliano Kolbe, offrendo la sua vita in un campo di concentramento al posto di quella di un padre di famiglia, ci ha insegnato: essere martiri, qualora attraverso la dialettica maggioranza-minoranza non fossimo in grado di fronte al corpo elettorale di rendere ragione delle nostre buone ragioni.
Se il nostro vivere da cristiani secondo virtù in forza del discernimento nello Spirito non si declina nella vita civile, in capacità di edificare istituzioni abili a offrire soluzioni ai problemi dell’umana contingenza – «avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere» (Mt 25, 35a), non “avevo fame e loro mi hanno dato da mangiare” – e se esso non sarà conforme al rispetto delle istituzioni di quelle regole e di quelle procedure vorrà dire che, a dispetto anche delle eventuali migliori intenzioni, staremo agendo come dei pessimi cittadini e dei pessimi, anche, cittadini politicamente impegnati. Le istituzioni sono lo strumento più umile che abbiamo, ma necessario, che ci consente di ricercare quotidianamente il doveroso consenso sul legittimo dissenso, ricerca conforme all’idea di discernimento come atto teologale. La forma di relazione che apre a questo tipo di discernimento, appare l’unica possibile defezione di azione politica democratica e poliarchica, in una realtà dove esistono tanti centri di potere, in una società libera e aperta che nel contempo assume la politica come via indiretta della carità. Ovvero, la «via istituzionale della carità», per essere al riparo dalla continua tentazione del serpente di voler prendere il posto di Dio.
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