La sovrabbondante misericordia di Dio. Un Dio che non si accontenta
delle novantanove pecorelle tornate all’ovile, ma corre
a cercare l’unica smarrita; un Dio pronto ad accogliere sempre,
a braccia aperte. Questo il centro della riflessione del cardinale
Angelo Comastri, Vicario di Papa Francesco per la Città del Vaticano .
In cerca del peccatore
All’inizio della sua predicazione, la prima parola pronunciata da Gesù è stata: «Convertitevi!» (cf Mt 3, 2; cf Mc 1, 14). Oggi la ripete anche a noi: «Convertitevi!». Ma cosa significa “convertirsi”? Gesù ci risponde con una parabola che potremmo definire “la parabola della conversione”:
è la parabola del Figliol prodigo, del figlio che si pente e torna alla casa del padre. Perché Gesù ha raccontato questa parabola? L’evangelista Luca ci riferisce che i farisei e gli scribi – cioè
coloro che presumevano di conoscere il pensiero di Dio e si sentivano perfettamente in regola con Dio – erano scandalizzati per l’eccessiva bontà di Gesù. Egli, infatti, parlava con i peccatori, andava a cena con loro, li cercava, li accoglieva con benevolenza.
Una volta, addirittura, lasciò che una donna peccatrice gli baciasse i piedi e li bagnasse con le sue lacrime e, un’altra volta, si mostrò misericordioso verso una donna colta in adulterio e la difese da coloro che avevano già i sassi in mano per colpirla. Gesù disse loro: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra!» (cf Gv 8, 7). Nessuno si azzardò a lanciare un sasso. Questa bontà sembrava eccessiva ai farisei, al punto tale che cominciarono a mormorare contro Gesù e spargevano questa critica molto sottile e molto pericolosa: «Costui – dicevano – pende verso i peccatori e mangia con loro. In questo modo, sporca la sua reputazione e, pertanto, costui non può venire da Dio» (cf Lc 15, 2). Terribile insinuazione!
Gesù raccoglie la critica e risponde a tono dicendo: «Voi non conoscete Dio. Dio è come un pastore che ha cento pecore e ne perde una. Ebbene, sapete che cosa fa? Non si consola con le altre novantanove, ma va a cercare la pecora perduta. Sì, la va a cercare e, quando la ritrova, non la prende a calci, ma la mette delicatamente sulle spalle e la riporta all’ovile con il cuore colmo di gioia» (cf vv. 4-7). Questo è il comportamento di Dio. «Dio – continua Gesù – rassomiglia anche a una donna che ha dieci monete preziose nascoste in casa, sono il suo tesoro, ma a un certo punto si accorge che manca una moneta. Che cosa fa questa donna? Butta all’aria tutta la casa e leva un sospiro di sollievo soltanto quando ritrova la moneta perduta» (cf vv 8-10). La donna chi rappresenta? Rappresenta Dio, disposto a fare qualsiasi fatica per ritrovare colui che si è smarrito. E chi rappresenta la moneta? Rappresenta il peccatore che davanti a Dio sarà sempre un tesoro da cercare.
Questo messaggio è meraviglioso e consolante!
Terribile inganno!
Ma Gesù continua a parlare e dice: «Dio rassomiglia a un padre che ha due figli» (cf v. 11). Questi due figli sono il tormento del suo cuore. E questi due figli siamo noi, noi che talvolta rassomigliamo al secondo figlio. Racconta Gesù: «Il figlio più giovane, a un certo momento, dice al padre con disprezzo: “Tu mi soffochi! Dammi la parte del patrimonio che mi spetta, perché voglio andare via da te e voglio vivere la vita come pare a me“» (cf v. 12).
Questo figlio non capisce più la bellezza della vita accanto al padre, non apprezza più l’affetto premuroso del padre e la sua bontà sincera; è scontento dentro e pensa di curare la sua scontentezza mettendo i divertimenti al posto del padre. Nel cuore del figlio il padre viene spodestato e sostituito da un amore egoista e capriccioso, che appare la soluzione per trovare la felicità. Terribile inganno, eppure quante volte accade così! Non vediamo che spesso Dio viene sfiduciato, viene sentito come un limite della libertà e non più come la luce che dà senso alla libertà? Non vediamo che spesso il suo amore non viene più sentito come una fonte di gioia, ma come un impedimento della gioia?
Quante volte si ripete questo drammatico equivoco! Julien Green, nel suo Diario annota questa acuta osservazione: «Se volete sapere dove non abita la felicità, frequentate i luoghi di divertimento: lì troverete qualche briciola di piacere, ma di felicità neppure l’ombra». È così! Eppure per una goccia di piacere molti gettano via l’oceano della felicità che è Dio, ed è soltanto Dio! Luigi Santucci, scrittore contemporaneo, ha confermato questa osservazione quando ha detto: «I gaudenti di questo mondo, i frequentatori dei locali a luci rosse, dei rave-party e dei sexy-party o cose simili, debbono sapere che noi credenti evitiamo le loro orge non tanto perché abbiamo paura dell’inferno, quanto perché si gode immensamente di più quando si è limpidi, puri, umili, generosi, cioè quando ci si lascia condurre da Dio che è – diciamo pure secondo la felice espressione di F. Fedor Dostoevskij – il proprietario esclusivo della gioia».
La vera gioia
Nella parabola del Figliol prodigo, il figlio più piccolo fugge dalla casa del padre con un bagaglio di sogni che subito si sciolgono come neve al sole. Esce, infatti, sognando un meraviglioso castello fatato e invece si ritrova in un porcile. Che cosa vuole dire Gesù? Una verità semplicissima, che egli ci ricorda non per togliere spazio alla nostra libertà, ma per indicarci qual è la strada che fa maturare la libertà e non la fa abortire nel fallimento: il peccato è male perché fa male; il peccato è amaro, il peccato ha un volto seducente ma ha dentro di sé un nocciolo velenoso e autodemolitore. Già i profeti, con tono accorato, avevano detto la stessa cosa. Geremia, per fare un esempio, si rivolge al popolo che aveva sfiduciato Dio per seguire gli idoli e gli dice: «Essi hanno seguito ciò che è vano – ciò che è vuoto, inconsistente – ed essi stessi sono diventati vani – cioè vuoti, inconsistenti» (cf 2, 5). E aggiunge: «La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Riconosci e vedi quanto è cosa cattiva e amara l’aver abbandonato il Signore tuo Dio» (v. 19). Oggi, per scendere al concreto, il denaro per tanta gente è diventato un idolo, cioè un falso dio, incensato e cercato con tutte le forze. E cosa accade? Pietro Citati, scrittore contemporaneo molto acuto, ha osservato: «L’ansia, l’inquietudine, il mal di vivere è la caratteristica di tutte le società che hanno raggiunto un alto livello di benessere».
La gioia non si compra con i soldi. Infatti, con statistiche alla mano, possiamo documentare che, mentre cresce il benessere, cresce anche l’uso di tranquillanti.
Cosa significa? Niente e nessuno può sostituire Dio: lontano da Dio, l’uomo intristisce inesorabilmente e perde la gioia di vivere.
Buono è il Signore!
Nella Parabola, il figlio scappato da casa a un certo punto apre gli occhi: è il primo passo della conversione. Egli si rende conto che la felicità che aveva sognato, fuggendo di casa, era soltanto un miraggio inconsistente. Che cosa può fare? Potrebbe orgogliosamente ostinarsi nella sua scelta sbagliata, e così, affogare nella tristezza e nel fallimento. Potrebbe, invece, riprendere umilmente la strada del ritorno, confidando nella bontà del padre, di cui egli conserva il ricordo. E così, il giovane fa il viaggio del ritorno: un atto di umiltà è la sua salvezza.
Ma ecco che cosa accade.
Quando sta per arrivare a casa con il cuore in gola, quando sta per intravedere la casa che aveva orgogliosamente rifiutato, quando sta per avvicinarsi al padre con vergogna e anche con un po’ di timore, ecco che da lontano vede una persona che corre, e corre verso di lui. Il figlio ha un tuffo al cuore. Chi sarà?
Sarà un servo messo a sorvegliare per tenerlo lontano? Sarà una sentinella incaricata di punirlo appena si fosse presentato all’orizzonte? Il figlio alza gli occhi e, con grande sorpresa, vede che l’uomo che gli corre incontro è suo padre. Il figlio resta scioccato. Che fare? Gesù dice: «Il padre da lontano lo vide e si commosse profondamente e, mentre correva verso il figlio, gli cadde sul collo e lo abbracciò affettuosamente» (cf Lc 15, 20). Immaginiamo lo stupore del figlio. Anche questa è una componente irrinunciabile della conversione: lo stupore, cioè la scoperta che Dio è molto più buono di quanto noi possiamo immaginare. Dio ha un cuore molto più grande dell’orizzonte che ci circonda. Il Salmo 103 dà voce allo stupore e dice: «Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe. Come il cielo è alto sulla terra, così è grande la sua misericordia su quelli che lo temono; come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà per quelli che lo temono» (vv. 8-13).
Questo stupore, a motivo della misericordia sovrabbondante di Dio, deve restare sempre per stimolare il cammino della conversione senza sosta. Infatti, colui che ritorna al Signore non si siede su una poltrona, ma comincia un nuovo cammino nel quale prevale il bisogno di restituire l’amore rubato, di restituire l’amore negato. Anche questo fa parte del cammino di conversione.
La storia di Giacomo Fesch
Per attualizzare la “parabola della conversione”, aiuta conoscere il concreto cammino di conversione di un giovane di oggi,un giovane del nostro tempo. Il suo nome è Giacomo Fesch.
Il passato senza Dio Giacomo, nato nel 1930, apparteneva a una ricca famiglia belga trasferita a Parigi: il papà era direttore di banca, socialmente ben affermato ma totalmente ateo. Le sue idee influirono sul figlio e gli trasmisero la convinzione che la vita è un viaggio verso il niente finale e, pertanto, l’unica cosa da fare è cercare di succhiare dalla vita più sensazioni e soddisfazioni possibili, come purtroppo pensano tanti giovani e tanti adulti anche oggi. Giacomo si sposò civilmente ed ebbe una bambina ma, a livello interiore, egli non era né uno sposo né un padre, era semplicemente un egoista che pensava solo a se stesso. E oggi di persone così ce ne sono tantissime. Nel lavoro, nonostante i soldi messi a disposizione dalla famiglia, Giacomo andò in fallimento e dovette chiudere una società per il trasporto del carbone, che lui dirigeva.
Pensò, da egoista, di dimenticare tutto organizzando un viaggio nell’oceano con uno yacht. Chiese i soldi al ricco padre, ma questi glieli negò. Abituato a non rinunciare a niente, Giacomo tentò una rapina in una gioielleria, ma la rapina fallì per la pronta reazione del gioielliere e, durante la fuga, Giacomo uccise un gendarme con la rivoltella presa dal cassetto del padre. Così si ritrovò rinchiuso in un carcere di massima sicurezza a Parigi.
Lì lo condusse il mostro dell’egoismo: era il 25 febbraio 1954 e Giacomo Fesch aveva appena 24 anni. Nel carcere è disperato e rifiuta il cappellano dicendogli: «Io sono ateo, non ho bisogno di lei». Intanto si chiede: «Come ho fatto a diventare delinquente?». E trova la risposta nell’educazione sbagliata che ha ricevuto in casa, soprattutto dal padre. Giustamente osserva: «Mio padre era ateo all’estremo e scontento della vita, nonostante i suoi successi professionali. Mi diceva che Dio non c’è e, pertanto, non dobbiamo rendere conto a nessuno di ciò che facciamo. Ma se non dobbiamo rendere conto a nessuno, non esistono il bene e il male: allora ho pensato che potevo tranquillamente seguire i miei capricci. E così ho fatto». Giacomo cerca di scavare nella radice da cui è nato il suo sbandamento e osserva con amarezza: «Bastava un ideale per salvarmi! Bastava un ideale e non sarei mai diventato un criminale!
Nel silenzio della cella
Spesso batte i pugni contro la parete della cella e capisce che il suo futuro è compromesso per sempre. Ma dentro la disperazione Gesù lo stava aspettando. Circa otto mesi dopo il delitto, una sera Giacomo è solo nella cella ed è angosciato per il senso di sconfitta che prova e anche per le brutte notizie che gli vengono dalla sua famiglia: tutto si stava sfasciando. A chi può rivolgersi uno che non crede? Con chi può sfogarsi? Giacomo vede davanti a sé soltanto il vuoto e sente in modo intenso la sua disperazione. Improvvisamente, questa disperazione si trasforma in un grido, anzi in una preghiera: «Mio Dio! Mio Dio!», grida nel silenzio della cella. Era un’invocazione sincera dell’anima, che Giacomo non aveva più fatto da quand’era bambino. Era un grido di aiuto sbocciato in una improvvisa recuperata umiltà. E cosa accade? Giacomo cade in ginocchio e si sente abbracciato da Dio: crede, si accorge che Dio c’è e gli vuole bene. Giacomo crede fortemente e si meraviglia di non aver creduto prima. La sua vita cambia, ha un giro di boa; comincia una lotta tra l’uomo egoista che era stato e l’uomo nuovo che stava per nascere».
E vince l’uomo nuovo. Scrive alla moglie, che resta ancora non credente: «Il rifiuto che tu opponi alla fede non deriva che da mancanza di umiltà! Come ti comprendo assai bene, non molto tempo fa avrei avuto le tue stesse reazioni. Tutto questo succede perché non vogliamo vedere. Non c’è che un piccolissimo gradino da salire, ma occorre lasciare sul precedente le nostre acredini e il nostro orgoglio e abbandonarci a Colui che tutto può».
Scrive alla suocera, che gli rimane sempre vicino: «Penso spesso alla mia bambina e vorrei molto averla con me. Penso molto, molto spesso a lei e sempre mi domando che guasti questa storia provocherà nella sua anima. Non un papà per aiutarla e proteggerla ma, al contrario, un papà che certamente verrà criticato davanti a lei e che altrettanto certamente sarà accusato di averle lasciato una eredità pesante di cui la gente diffiderà». Giacomo soffre perché pensa che sua figlia sarà inesorabilmente considerata “la figlia dell’assassino”.
Il processo
Passano gli anni 1955 e 1956. Giacomo sente in modo particolare la nostalgia della casa ogni volta che si avvicina il Natale. E all’amico sacerdote, Thomas, racconta: «Ahimè, qui il Natale è un giorno come gli altri: niente Messa di mezzanotte, niente Messa all’indomani. Alle sette di sera siamo immersi nell’oscurità, viene tolta la corrente nelle celle». Che tristezza! Che solitudine! La notte di Natale dell’anno 1956 la passa in carcere per la terza volta: sente il suono delle campane, immagina la gioia della famiglia, sogna e piange. Vede il volto della sua bambina e inutilmente allunga la mano per accarezzarla. Capisce che ormai non potrà mai più farle sentire che è suo padre. Intanto egli aspetta il processo e spera; spera di poter uscire vivo dal carcere e di riparare al male fatto con una vita consacrata al bene. Mercoledì 3 aprile 1957 si apre il processo.
Il padre si presenta al processo ubriaco e vestito in un modo stravagante: una scena raccapricciante. L’avvocato Baudet inorridisce, ma spera che questa circostanza possa aprire gli occhi ai giudici per formulare un giudizio che tenga conto delle attenuanti. Giacomo, invece, che era presente in aula, si sente profondamente umiliato dal comportamento del padre e abbassa la testa per la vergogna: vorrebbe scomparire. L’avvocato Baudet, uomo di grande fede, pronuncia un’appassionata arringa di difesa e chiama anche il padre di Giacomo.
La condanna a morte
Il 6 aprile 1957, giorno del 27° compleanno di Giacomo, viene annunciata la sentenza. Giacomo spera che la circostanza del compleanno sia di buon auspicio per una benevola sentenza.
Viene invece condannato a morte, inesorabilmente condannato alla ghigliottina. Un autentico fulmine si abbatte sul giovane! Giacomo si appoggia ancora di più a Gesù e capisce che soltanto la misericordia di Dio non lo abbandonerà mai. Intanto i giorni passano velocemente: la condanna si avvicina, anche se Giacomo non conosce ancora il giorno esatto dell’esecuzione.
Egli desidera prepararsi spiritualmente e desidera salutare da vero cristiano tutti coloro che lo hanno amato e accompagnato nel viaggio della fede. Riceve in carcere una ciocca di capelli della figlia Véronique, che ha appena sei anni. Si commuove e scrive così alla famiglia: «Ho ricevuto la piccola ciocca di capelli di Véronique! Che bei capelli ha! Ho realmente l’impressione di avere la mia figlioletta nella cella!». Il 25 settembre, il papà e la moglie sono ammessi in carcere: salutano Giacomo per l’ultima volta. L’emozione è fortissima, gli sguardi intensi, le lacrime si affacciano sugli occhi stanchi di Giacomo. Però una notizia riempie di gioia il cuore del condannato: la moglie gli annuncia che, finalmente, il giorno dopo riceverà la santa comunione. Giacomo l’aveva tanto desiderato e, tornato in cella, scrive nel suo diario: «Io parto con la speranza che Gesù sarà presto in lei e che finalmente crederà. Ne sono tanto felice! Possa il mio sangue essere accettato da Dio come sacrificio completo anche per la conversione di mio padre». Scrive all’avvocato Baudet: «Caro avvocato, non posso scrivere questa lettera senza commozione al pensiero che, quando la leggerete, io sarò in cielo.Un grande ringraziamento per quanto avete fatto per me. Grazie alle vostre fatiche di avvocato, ma soprattutto grazie all’uomo di Dio che non ha cessato di guidarmi e di ricondurre questa pecora ribelle verso l’ovile del Padre».
Si avvicina l’esecuzione
30 settembre 1957. Giacomo, nel silenzio della cella, vive la drammatica attesa. L’esecuzione è vicina. Nel testamento per la sua bambina riesce a scrivere: «Ultimo giorno di lotta! Do- mani a quest’ora sarò in Cielo!». L’avvocato, un uomo religiosissimo al quale Giacomo si era affezionato, va a trovarlo e gli dice: «Giacomo, è fissata l’ora: sarà domani all’alba». Un brivido attraversa tutto il corpo di Giacomo. L’ultima notte è una vera agonia: si alternano sentimenti di fiducia e di paura, di gioia e di tremore. In certi momenti già sente la festa dell’eternità e confida nel suo diario: «Gesù mi è vicinissimo. Egli mi attira a sé sempre di più, e io non posso che adorarlo in silenzio desiderando morire d’amore». E aggiunge: «Attendo nella notte e nella pace. Ho gli occhi fissi al Crocifisso e i miei sguardi non si distolgono dalle piaghe del mio Salvatore. Mi ripeto instancabilmente: “è per te“. Voglio serbare quest’immagine sino alla fine, io che soffrirò così poco. Attendo l’Amore!
Fra cinque ore vedrò Gesù!».
Consolato da Dio
Alle 5.30 del mattino lo trovano in preghiera, accanto al letto rifatto: un’ultima delicatezza di un uomo visitato dalla bontà di Dio. Si confessa per l’ultima volta e fa la comunione in ginocchio, accanto all’avvocato Baudet. Poi va incontro alla ghigliottina docile come una pecorella; gli legano le mani, c’è attorno un clima di intensissima emozione. Giacomo improvvisamente si rivolge al cappellano e lo supplica: «Il Crocifisso, padre mio, il Crocifisso!», e lo bacia lungamente, bagnandolo con le sue lacrime. Tutti sono commossi: Gesù è l’unico che possa consolare il condannato Giacomo Fesch! Con le lacrime che sgorgano dagli occhi appoggia la testa sul patibolo e si sentono le sue ultime parole: «Signore, non abbandonarmi!».
La ghigliottina affonda veloce la sua lama, è un istante e cade la testa. Ma non è più un assassino che muore, è un cristiano che muore pieno di amore. Il 27 agosto 1957 aveva scritto nel suo diario: «Quando morirò, verranno gli angeli a felicitarsi con me per essere diventato un eletto. Sarà proprio la prima cosa nella quale riuscirò nella vita!». A conclusione di questa impressionante storia poniamoci una domanda: noi abbiamo mai avuto un pentimento sincero dei nostri peccati? Abbiamo davvero, almeno una volta, messo la nostra anima tra le braccia della misericordia di Dio? Possiamo dire con convinzione che crediamo ciecamente che Dio è amore e soltanto amore, che Dio è bontà e soltanto bontà? La storia tormentata della conversione di Giacomo Fesch accenda in noi la decisione di una santa confessione, con il desiderio di diventare finalmente veri cristiani. I giorni della 37ª Convocazione nazionale del Rinnovamento siano un’autentica esperienza della misericordia di Dio per poter uscire dal Cenacolo con il volto luminoso, per raccontare a tutti che Dio è amore, e noi l’abbiamo sperimentato.
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