Le nostre interviste – Intervista a Pupi Avati

Il cinema: il viaggio della vita

Musicista, sceneggiatore, regista e produttore. Ma anche, inizialmente, dirigente di una nota casa di surgelati, periodo che Avati descrive come i «quattro anni peggiori della sua vita». Poi la svolta, nel 1963, dopo aver visto il film “8e mezzo” di Federico Fellini. È la conferma e l’inizio di un sogno poi realizzato con enorme successo: il cinema. E nel cinema il Maestro Avati vive le infinte sfumature della vita, introspettive di rapporti assaporati, vissuti e a volte mancati. Molti i temi affrontati nei suoi film: la famiglia, le difficoltà della Guerra la malattia psichica e il rapporto con la fede. Con quasi 50 anni di carriera alle spalle, abbiamo chiesto al Regista bolognese come è cambiata la società che tante volte ha rappresentato attraverso la macchina da presa.

Fin da ragazzo ha creduto nel sogno del cinema, attirato dalle luci di Cinecittà. Con la crisi economica e sociale e la mancanza di prospettive che soffriamo, c’è ancora spazio per i sogni dei giovani di oggi?

«Le leggi del mercato hanno privato completamente le nuove generazioni della libertà di sognare. I sogni li vende il mercato, li produce “Silicon Valley”… Il ragazzo è soltanto un fruitore di sogni, non ha più neppure il coraggio di immaginare di poter fare una cosa speciale, diversa. Vive nella condizione illusoria di contare qualcosa, ma in realtà non conta più niente».

Cosa conta oggi, quali i criteri di valutazione dell’individuo nella società attuale? 

«Il ruolo sociale non è più determinato dalle conquiste, per esempio in campo intellettuale. Questo è un valore molto relativo. Tu vali quanto percepisci. Se una persona riceve uno stipendio da 1300 euro, non vale. C’è, ma non la consideriamo. Se una persona guadagna 400mila euro all’anno (come una star televisiva), diventa un punto di riferimento: è uno che ce l’ha fatta! Non perché ha fatto delle cose straordinarie che miglioreranno la storia dell’umanità, che debelleranno le epidemie e risolveranno i problemi. Ce l’ha fatta perché è riuscito ad arrivare a quel tipo di considerazione sociale che si manifesta attraverso valori che si esplicitano in somme e in sottrazioni. Siamo tutti considerati attraverso valori numerici: l‘auditel, i votanti di un partito, chi vede quel programma, chi legge quel giornale, chi vede quel film, chi compra quel libro, chi va a quel concerto; siamo destinati a essere statisticamente dei numeri mentre per la nostra educazione eravamo cresciuti nella convinzione di essere degli individui, qualcosa di assolutamente speciale e prezioso. C’è un passo della Scrittura in cui si dice che anche i nostri capelli sono contati, che tutti noi siamo qualcosa di assolutamente prezioso e irripetibile, addirittura prescelti, in un’ottica di trascendenza». 

In una sua intervista, parlando della fiction “Le nozze di Laura”, si è detto affascianto dall’episodio evangelico delle Nozze di Cana, nel quale immagina Gesù come un ragazzo “strano”, isolato, che viene esortato dalla madre a compiere il suo primo miracolo. Il suo rapporto con la fede cattolica non è mai stato ambiguo. C’è, secondo lei, una forma di vergogna a manifestare apertamente la propria fede?

«Sì, perché si considera la fede come legata a un mondo arcaico, scaramantico, alle radici culturali dalle quali proveniamo e nelle quali siamo cresciuti, a quella cultura contadina che ci ha nutriti. Per le nuove generazioni, il problema principale è quello di interrompere questo tipo di rapporto, di cordone ombelicale che per millenni ha reso continuativa la trasmissione della fede». 

Nel suo libro autobiografico La grande invenzione (Rizzoli), mette in luce la necessità di riconoscere la propria identità, partendo da quella di chi ci ha preceduto, prima di tutto la famiglia. Perché abbiamo un rapporto così difficile con il passato, la storia, la memoria?

«La preoccupazione di oggi, soprattutto delle nuove generazioni, è quella di non manifestare alcun debito, alcun senso di legame e di riconoscenza nei riguardi del passato. È come se tutto fosse nato simultaneamente alla loro nascita e appartenga al loro presente. Questo impedisce loro di godere delle straordinarie conquiste che l’essere umano è andato facendo. Oggi, per esempio, la fatica fisica è stata quasi totalmente debellata, e se qualcosa è rimasto è riservato a chi viene da lontano, agli emigranti, a chi deve rassegnarsi a chinarsi, a tenere la schiena piegata per raccogliere i pomodori o le melanzane! Ma l’essere umano occidentale non conosce più la fatica, non sa più cos’è. E non sa più che cos’è nulla che non abbia a che fare nemmeno con il presente, perché nella gerarchia dei suoi valori lo status symbol è dato da quello che ha, da quello che possiede».

Molti definiscono “esigenza dei tempi moderni” prassi consolidate come l’aborto, il divorzio, o l’eutanasia. Con l’alibi di non tenere in piedi un matrimonio compromesso o di non tenere in vita una persona sofferente, non sarà, forse, che stiamo diventando una società che non sa più prendersi cura dell’altro?

«Ci stiamo orientando verso quello che è il grande peccato che Benedetto XVI aveva indicato, nella sua prima omelia da Pontefice, quando si riferiva al relativismo. È evidente che nello scioglimento del vincolo matrimoniale, nello scioglimento del rapporto con una creatura che hai dentro di te, nello scioglimento di qualunque impegno gravoso che ti possa procurare una persona disabile, malata, vecchia, anziana, attraverso l’alibi della sua sofferenza, la cultura del relativismo fa sì che ognuno di noi cerchi di godere al massimo, in modo totalmente egoistico, di quello che gli offre la vita. Assistiamo al dissolvimento delle leggi fondamentali sulle quali si fonda la famiglia, delle responsabilizzazioni nei riguardi dei ruoli genitoriali: il padre non è più padre e non si sa bene cosa sia; la madre è una specie di clone del padre perché non vuole essere assolutamente da meno; al figlio non è più dato di avere un fratello o una sorella o qualcuno con cui spartire l’avventura della vita, ma è costretto a essere solo, ad accattonare l’amicizia di qualche altro amichetto solo o della baby sitter (se non c’è la televisione che funge da baby sitter). Tutto è diventato così poco consolatorio per cui è sufficiente un litigio perché questa presunta famiglia, che non si fonda sul niente, si disperde, magari perché il marito o la moglie conoscono una persona più giovane. Nessuno dei genitori si preoccupa realmente e autenticamente della felicità del figlio; ma il figlio, nascendo, ha il diritto di avere i suoi genitori, due genitori».

Il nostro tempo vede nuove forme di famiglia e soprattutto di sessualità, tra cui il gender. Il sociologo Baumann definisce la nostra società liquida, instabile, legata alla cultura e non alla natura. C’è spazio per ragionare apertamente su questi temi?

«Per quanto mi riguarda alcuni aspetti sono fondamentali: per esempio, io credo che due mamme o due papà omosessuali, anche molto premurosi e amorevoli, privano però il bambino della presenza importantissima del maschile e del femminile. Ancora, la procreazione di figli attraverso uteri in affitto è secondo me il peccato più grave che si possa commettere: si condanna l’essere umano che nasce a una visione del mondo non equilibrata. Su questi temi bisognerebbe avere il coraggio e la maturità di interrogarsi, come sottolineano d’altronde anche moltissimi omosessuali.

Lei affronta spesso, nei suoi film, la questione della malattia, come nella “Sconfinata giovinezza” dove tratta il tema complesso dell’Alzheimer. Cosa significa per lei la sofferenza, il dolore, non solo dal punto di vista fisico, ma anche come male di vivere…?

«Io sono profondamente sedotto dal disturbo mentale; conosco molte persone, con le quali interloquisco, che hanno dei problemi e che mi chiedono solo ascolto, che non è poi un grandissimo sacrificio. Se ci sono tanti gesti orrendi, definitivi, come quando una persona arriva ad uccidere chi gli è più caro (fenomeni ormai quasi quotidiani) molto spesso accade perché non c’è stato nessuno disposto ad ascoltare quelle persone. A volte, sarebbe sufficiente prestare un po’ di attenzione e far sì che una persona non si senta abbandonata, sola nella disperazione più profonda. Attraverso alcuni film come “Il papà di Giovanna”, o “La sconfinata giovinezza” e, ultimamente, “Il fulgore di Dony”, ho affrontato il tema dei disturbi mentali, psichici, degenerativi. Ho cercato di leggerli in una chiave che non voglio definire “positiva” perché è evidente che una famiglia è fortemente “penalizzata” dalla presenza, per esempio, di un malato di Alzheimer (noi lo abbiamo vissuto a casa nostra e sappiamo bene cosa significhi). Però ci siamo anche accorti che se c’è stato un momento in cui mia moglie, nei riguardi di sua madre, riusciva a stabilire un rapporto, è stato soltanto nell’amorevolezza, cioè quando la stringeva, l’abbracciava e le urlava che era sua figlia, allora questa donna improvvisamente pareva, per un attimo almeno, rinsavire, ritornare in sé stessa. Ho fatto questi film per dimostrare la mia vicinanza, ai parenti, ancora più che per il malato che soffre, la cui mente è talmente lontana per cui non possiamo neanche sapere se soffra». 

Sotto le stelle del cinema

Pupi Avati, all’anagrafe Giuseppe Avati, nasce a Bologna il 3 novembre 1938. Frequenta la Facoltà di Scienze politiche e il suo esordio artistico avviene nel jazz come clarinettista nella Doctor Dixie Jazz Band, ma rinuncia dopo l’ingresso nella band di Lucio Dalla, artista con cui istaurerà una grande amicizia e che collaborerà in diversi suoi film. Conquistato dalla visione di “8 e mezzo” di Fellini, tenta la strada del cinema.

Lo scarso successo dei primi due film (1968) lo spinge a ritirarsi per un periodo dai riflettori ma nel 1975 torna con la pellicola “La mazurka del barone” e, nel 1976, con “La casa delle finestre che ridono”, un giallo-horror premiato al Festival del Film fantastico di Parigi. Con “Jazz band”, uno sceneggiato sulla storia della Doctor Dixie Jazz Band (1978), vince il Premio della critica a San Sebastian. Nel 1979 collabora con i Pooh dirigendo lo speciale televisivo “Viva”. Nel 1983 il regista passa alla commedia dirigendo il pluripremiato “Una gita scolastica”, “Noi tre” (1984, premio speciale della Giuria al Festival di Venezia), “Storia di ragazzi e ragazze” (1990, David di Donatello “migliore sceneggiatura”). Con “I cavalieri che fecero l’impresa”, nel 2001, dirige un vero colossal italiano. Nel 2003, dopo un periodo di pausa, riceve il David di Donatello come “miglior regista” con il film “Il cuore altrove” che vede protagonisti Neri Marcorè e Vanessa Incontrada. Nel 2013 dirige la fiction per RaiUno “Un matrimonio”, una storia d’amore fra due bolognesi durata oltre 50 anni, ispirata alla vita dei suoi genitori e alla sua. Autore di diversi testi, nel 2008 pubblica la sua autobiografia “Sotto le stelle di un film” (Il Margine Ed.). Nel 2010 viene realizzato un film documentario di interviste e animazioni “Pupi Avati, ieri oggi domani” diretto dal regista Claudio Costa. 

Presiede la Fondazione Federico Fellini, che ha esercitato una grande influenza sullo stesso Avati. Nel settembre 2014 vince il premio Montreal World Film Festival in Canada come “miglior sceneggiatura” dell’anno per il film con Sharon Stone e Riccardo Scamarcio “Un ragazzo d’oro”. Con “Il fulgore di Dony”, andato in onda recetemente in Rai, Avati ha diretto 40 film per il cinema e 9 per la televisione. 

L’amore per la famiglia, per la propria città e la passione per la musica lo accompagnano da sempre nella vita, sia privata che professionale, continuando a lasciare nei suoi film un’impronta inconfondibile di un passato e di un presente straordinariamente vissuti.

 

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