Santo Stefano protomartire: l’Apostolo dei primati, modello di ogni martirio.

Di Luciana Leone

Di santo Stefano martire conosciamo gli ultimi, drammatici, momenti di vita, che ci sono restituiti dagli Atti degli Apostoli. Le sue origini non sono certe: alcuni suppongono che fosse greco, secondo altri era un ebreo che aveva avuto, però, contatti con la cultura ellenica. Conseguì alcuni primati importanti: fu, infatti, uno dei primi giudei a diventare cristiano; a motivo della sua fede profonda, ma anche della sua cultura e saggezza, divenne il primo tra i sette diaconi che erano stati scelti per aiutare gli Apostoli nella diffusione del Vangelo e nell’amministrazione dei beni; fu, infine, il primo martire della cristianità – per cui è detto “protomartire” – a offrire la vita pur di non rinnegare Cristo. 

 

Un giovane uomo, pieno di fede e di Spirito Santo  

Il capitolo 6 degli Atti racconta che, con l’aumento sensibile dei discepoli che si convertivano al cristianesimo, crescevano anche le esigenze di governo della nascente comunità cristiana. Sorsero, così, dei dissidi tra gli ebrei di lingua greca e quelli di lingua ebraica: i primi, infatti, ritenevano che le loro vedove venissero trascurate. Gli Apostoli, però, non potevano dedicarsi a tempo pieno al “servizio delle mense”, trascurando così la predicazione della Parola di Dio e la preghiera. Per questa ragione proposero di affidare tale compito a un gruppo di sette di loro e vennero eletti Stefano, «uomo pieno di fede e Spirito Santo» (cf At 6, 5), Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenas, Nicola di Antiochia. Dopo aver pregato, gli Apostoli imposero loro le mani: da questo gesto, la Chiesa fa discendere l’istituzione del ministero diaconale. Stefano si rivelò all’altezza del compito: fu saggio, forte, si dedicò con grande zelo anche alla predicazione, compiendo prodigi tra il popolo. La sua opera fu così incisiva che moltissimi ebrei, sopratutto quelli della diaspora, che passavano per la città santa di Gerusalemme, si convertirono alla fede in Gesù. 

 

Il martirio: anche san Paolo tra gli accusatori

L’opera di Stefano non passò inosservata, soprattutto agli occhi degli ebrei ellenistici che mal tolleravano il gran numero di ebrei convertiti per la sua predicazione. Lo arrestarono nel giorno di Pentecoste con l’accusa di blasfemia contro Mosè e contro Dio. Trascinato davanti al Sinedrio, il supremo consiglio ebraico, egli tenne un lungo discorso partendo dalla vocazione di Abramo, per poi difendersi dall’accusa di avere parlato contro Mosè, fino a testimoniare l’avvento di Gesù e, da accusato, diventare accusatore. Senza alcun timore e con grande parresia, Stefano concluse, infatti, dicendo: «Testardi e incirconcisi nel cuore e nelle orecchie, voi opponete sempre resistenza allo Spirito Santo. Come i vostri padri, così siete anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete diventati traditori e uccisori, voi che avete ricevuto la Legge mediante ordini dati dagli angeli e non l’avete osservata» (At 67, 51-53). Il Sinedrio, sdegnato da tanta audacia, non avendo il potere di condannarlo a morte, lo fece trascinare fuori perché fosse lapidato dalla folla. Stefano subì il suo martirio fissando il cielo e, pregando, vide la gloria di Dio e Gesù alla destra del Padre. Come Gesù, ebbe la forza di chiedere a Dio che tale peccato non fosse imputato ai suoi uccisori. Il Libro degli Atti riporta per la prima volta il nome di Saulo di Tarso, che poi diventerà San Paolo, e che fu uno dei grandi inquisitori di Stefano.

L’insegnamento di Stefano: lasciamoci scomodare dallo Spirito Santo 

Stefano non è da considerarsi solo l’apostolo dei primati, ma anche il modello di ogni martirio. Nella sua vicenda, ritroviamo tutti gli elementi che ricorrono quando qualcuno viene ucciso in odio alla fede: le accuse false, tendenziose e oscure; il fastidio di chi non riesce a comprendere Gesù e il suo Vangelo; l’aggressione violenta di chi non accetta l’annuncio, chiuso nella propria visione; il perdono ai persecutori; la fede incrollabile e innegabile fino all’ultimo alito di vita. Come tutti i martiri, Stefano ci s’insegna che il Vangelo è spesso scomodo e destabilizzante: la sua portata non riguarda solo il cuore dell’uomo, la scelta personale della fede in Gesù, ma mette in discussione i sistemi umani sociali in cui la giustizia, la legge, la prassi escludono gli orizzonti dell’amore, del perdono, dell’uguaglianza. 

Stefano, nella sua autodifesa, introduce un argomento di centrale importanza: egli accusa il Sinedrio di “opporre resistenza allo Spirito Santo”, un atteggiamento che implica la volontà di non lasciarsi interpellare, scomodare dall’azione dello Spirito, che è per sua natura dinamismo rinnovatore. Papa Francesco osserva che questa forma di resistenza allo Spirito è una tentazione comune, attuale, che ci fa “essere testardi”, che ci spinge a voler “addomesticare lo Spirito», che ci rende “stolti e lenti di cuore” (cf Meditazione mattutina, Cappella Domus Sanctae Marthae, 16 aprile 2013). La denuncia di Stefano assume una forza enorme all’indomani della Pentecoste e, forse, non è un caso che l’apostolo sia stato arrestato proprio nel periodo successivo alla Pentecoste, sebbene non si conosca con esattezza l’anno dell’arresto. Papa Francesco, nella Meditazione citata, osserva che «lo Spirito Santo ci dà fastidio. Perché ci muove, ci fa camminare, spinge la Chiesa ad andare avanti. E noi siamo come Pietro nella trasfigurazione: “Ah, che bello stare così, tutti insieme!” Ma che non ci dia fastidio. Vogliamo che lo Spirito Santo si assopisca. Vogliamo addomesticare lo Spirito Santo. E questo non va. Perché lui è Dio e lui è quel vento che va e viene, e tu non sai da dove. È la forza di Dio; è quello che ci dà la consolazione e la forza per andare avanti. Ma andare avanti! E questo dà fastidio. La comodità è più bella». 

 

La traslazione del corpo, tra leggenda e archeologia

Come abbiamo accennato, santo Stefano è patrono dei diaconi e proprio per questa ragione, nell’iconografia sacra, è rappresentato con la dalmatica, l’abito liturgico caratteristico dei diaconi. Un elemento tradizionalmente legato al Santo sono le pietre della lapidazione: per questo è invocato contro il mal di pietra, cioè i calcoli, ed è il patrono dei tagliapietre e dei muratori. 

Particolarmente leggendaria la storia delle sue reliquie: secondo una celebre lettera del prete Luciano (datata nel 415), gli Ebrei avrebbero lasciato il corpo di Stefano esposto alle belve, ma per volere di Dio nessun animale ne toccò le carni. Gamaliele, commosso dalla sorte del diacono, avrebbe poi convinto i cristiani a seppellirlo in un luogo segreto, poco distante da Gerusalemme, chiamato Caphargamala. Qui le spoglie di santo Stefano rimasero dimenticate per circa quattrocento anni. Le ragioni di questo oblio sono diverse, prima fra tutte il fatto che il culto verso i martiri iniziò solo nel secondo secolo e si sviluppò in maniera sensibile dopo il quarto.  Nel 415 Luciano, prete del villaggio di Caphargamala, in seguito ad alcune visioni avute in sogno, in cui lo stesso Gamaliele avrebbe interloquito con lui, ebbe a conoscere il luogo in cui era sepolto il corpo del Protomartire. Il vescovo di Gerusalmme, Giovanni, convinto da quei sogni profetici, autorizzò lo scavo e le reliquie vennero individuate e traslate a Gerusalemme: era il 26 dicembre 415. 

Il corpo di santo Stefano rimase nella chiesa del Monte Sion fino al 14 giugno del 460, per poi essere trasferito nella basilica che l’imperatrice Eudossia, moglie di Teodosio II, aveva fatto costruire. Le reliquie, nel frattempo, cominciarono a girare in tutto il mondo, accompagnate da grandi segni e miracoli. Le reliquie furono inviate anche in molte chiese dell’Africa del nord. Anche sant’Agostino, per quanto fosse molto prudente, fu convinto dai miracoli, sostenne la diffusione del culto di santo Stefano, con i suoi famosi discorsi; nella sua opera “La Città di Dio” riporta i miracoli più rilevanti verificatisi nei santuari dedicati al santo, compreso quello consacrato da lui stesso a Ippona.

Il corpo venne trasferito a Roma, alla fine del secolo VI, nella Basilica di san Lorenzo fuori le mura. Nel 2014, l’archeologo palestinese Salah Hussein al Hudeliyya, ha individuato presso il sito archeologico di Khirbet El Tireh – a due chilometri dalla città di Ramallah – alcuni importanti indizi storico-arheologici che hanno potuto confermare quell’area come il luogo di sepoltura di Santo Stefano. 

Perché santo Stefano viene ricordato il 26 dicembre? 

La celebrazione liturgica di Santo Stefano è stata fissata al 26 dicembre, subito dopo la nascita di Gesù, perché nei giorni seguenti alla manifestazione del Figlio di Dio, furono posti i comites Christi, cioè coloro che furono più vicini a Gesù e furono anche primi a renderne testimonianza con il martirio. Così il 26 dicembre c’è santo Stefano, primo martire della cristianità; il 27dicembre san Giovanni Evangelista, discepolo amato e prediletto da Gesù, autore del Vangelo dell’amore; il 28 i Santi Innocenti, cioè i bambini primogeniti che Erode fece sterminare con la speranza di eliminare anche Gesù. Nella tradizione più antica, anche la celebrazione di san Pietro e Paolo apostoli era stata fissata nella settimana dopo il Natale, per poi essere trasferita al 29 giugno. Anche alcune Chiese protestanti ricordano Santo Stefano il 26 dicembre, mentre la Chiesa ortodossa lo festeggia il 27. Il 26 dicembre è diventato un giorno festivo dal 1947, mentre in precedenza era un normale giorno lavorativo, considerato che neanche per la Chiesa è un giorno di precetto. Si decise di renderlo festa nazionale con lo scopo di prolungare di un giorno la vacanza del Natale, creando così due giorni consecutivi di festa.

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