Riaprono le Chiese al culto, dopo 83 giorni di digiuno sacramentale per oltre 10 milioni di cattolici praticanti in Italia. Avviene domani, di lunedì, quasi a ribadire la ferialità di una fede che, per quanto ritrovi la celebrazione dell’Eucaristia, in realtà vedrà ancora limitate le sue dinamiche comunitarie. Dunque, una ripartenza a marce ridotte. A ben vedere, però, se nel tempo del coronavirus le chiese sono rimaste chiuse, le case della nostra gente non sono mai state così spalancate, affacciate a quella prospettiva “eucaristica” della storia che è amore per chi soffre, gratitudine per chi si offre fino a dare la vita per gli altri, solidarietà operosa verso chi è a corto di bene e di beni. Come se un ritrovato amore per la vita propria e altrui avesse esorcizzato lo spirito di morte che ammorba il cuore del mondo. “La fede – scriveva Kierkegaard – è la più alta passione di ogni uomo”. La prova, il limite, il dolore, la privazione della libertà nel viverla, ne esaltano il valore. In fondo, direbbe Hegel, “la storia del mondo non è altro che progresso della coscienza della libertà”. Essa, messa oggi a dura prova, provocherà nei credenti una fede più autentica, purificata nelle sue intenzioni, prima che nelle sue espressioni? Le chiese, di fatto, non sono più piene come un tempo e non è detto che tornino a riempirsi, smaltito il digiuno sacramentale e carismatico che molti cristiani avevano già conclamato nella loro vita, colpiti non dal covid-19, bensì dal virus dell’indifferenza religiosa. Se la vita liturgica è stata negata, questo non ha impedito ai cristiani di divenire, miracolosamente, palcoscenico di un inedito “culto spirituale”, storicamente riconducibile ai primi due secoli del Cristianesimo, quando proprio le case erano le “piccole chiese”, a causa della persecuzione politica e religiosa. Ancora oggi, del resto, in molti Paesi del mondo dove le fedi sono discriminate o rappresentano soltanto minoranze assolute, è norma l’impossibilità di accedere ordinariamente al culto pubblico. Al banco di prova del coronavirus l’umanità ferita si è mostrata capace di fraternità ritrovata. Ne sono manifestazione eloquente la benefica riscoperta della preghiera e dei legami affettivi intra familiari, due enormi pilastri di vita spirituale ritornati in auge come mai nel recente passato. Va ricordato che la liturgia è, per la Chiesa, non solo mistero di presenza di Dio, ma formula di soluzione del rapporto fra l’anima e Dio; più vera quando il sacrificio attanaglia le vite nella sofferenza, nella paura di morire, di rimanere soli, di non farcela. Nessuna legge umana ha mai potuto e mai potrà confinare o ridurre l’essenza della liturgia, che è e rimane sempre esperienza salvifica comunitaria. Papa Francesco, mettendo in guardia dal rischio dello gnosticismo, ha ribadito che la fede è “sì, intima, personale, ma in comunità. Senza comunità, senza il Pane, senza la Chiesa, senza il popolo, senza i sacramenti, è pericolosa”. Il legislatore, per dare primaria attuazione al “diritto alla salute” di tutti i cittadini, in special modo dei più fragili ed esposti al contagio, ha subordinato ad esso tutti gli altri diritti, con conseguente limitazione delle libertà fondamentali, inclusa quella di culto. Anche l’Eucaristia non è stata risparmiata, così che è venuta fuori una sorta di contraddizione in termini, che non poche difficoltà di accettazione ha registrato tra i fedeli: può il sacramentum salutis essere una minaccia alla salute? “I credenti sono cittadini”, ricordava Papa Francesco ai Vescovi italiani (Firenze 2015). La Chiesa Italiana ha mostrato il massimo rispetto per le disposizioni emanate dalle Istituzioni governative, “condividendo – come ha affermato il presidente della CEI, card. Gualtiero Bassetti – con sofferenza, le limitazioni imposte a tutela della salute di tutti, senza alcuna volontà di cercare strappi o scorciatoie, né di appoggiare la fuga in avanti di alcuno”. Riaprono le chiese e i credenti hanno l’opportunità di riaffermare la loro passione per Dio, ma anche per l’uomo, di ridire l’originalità della loro laicità cristiana riaccostandosi all’Eucaristia. Rotto “il digiuno”, ci sarà ancora fame di comunione con un’umanità più impoverita e bisognosa di salvezza? Sarà ancora questo Pane a sfamare il mondo nuovo che si profila all’orizzonte? Se la Chiesa sarà ancora sorgente di vita buona, bella, giusta, provvidente, che riempie d’amore il “tempo” più che il “tempio”, allora le chiese non saranno mai state così aperte e popolate.
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