SALVATOR MARTINEZ
Presidente del RnS
La vita e una nuova moralità civile
Parlare di vita si può, si deve. Laici, non credenti e credenti. E certo non solo in occasione delle Giornate Nazionali della Vita (la 44esima, quella che ricorre il 6 febbraio 2022, sul tema “Custodire la vita”). Lo dobbiamo alle nuove generazioni, che stanno drammaticamente smarrendo il senso della vita, anestetizzati da una cultura della morte che in nome del “male minore” non è più capace di riconoscere ciò che è veramente, oggettivamente, un bene da un male, o anche un bene comune da un bene individuale.
Sulla “cura” da dedicare alla vita, più volte Papa Francesco è stato assai esplicito: “La lezione della recente pandemia, se vogliamo essere onesti, è la consapevolezza di essere una comunità mondiale che naviga sulla stessa barca, dove il male di uno va a danno di tutti. Ci siamo ricordati che nessuno si salva da solo, che ci si può salvare unicamente insieme” (Omelia, 20 ottobre 2020).
C’è un ammonimento divino esplicito al riguardo: «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre» (Isaia 5, 20). È quanto sta accadendo; è quanto stiamo supinamente permettendo che accada! Quando la coscienza di un popolo non è più improntata alla ricerca disinteressata del bene ed è informata da istanze parziali, malsane, disumane, ecco che si fa erronea.
Il matematico ateo Bertrand Russell, autore del libro “Perché non sono cristiano”, scrisse un giorno, in una sua opera intitolata “L’autorità e l’individuo”: “Senza moralità civile le comunità periscono”. Come non condividere questa analisi! È proprio vero: l’Italia, l’Europa sembrano appassirsi per la siccità morale e spirituale che regnano nelle nostre comunità. Un’aridità che spesso impressiona, per l’incapacità di uomini e istituzioni di costruire e difendere una sana “moralità civile”.
Vivere bene, vivere il bene
L’uomo non è solo corpo, materia. Ogni creatura umana è anche, soprattutto, spirito e si alimenta delle ragioni dello Spirito. L’uomo e la donna non possono sfuggire al tremendo combattimento che in ogni angolo della terra regna tra vita e morte. E decidere da che parte stare, senza abdicare.
A noi preme privilegiare la vita, alimentare una cultura della vita, insegnare ai giovani l’arte di vivere, rendere la nostra vita sociale e familiare una vita vivibile. Una sfida che a tutti è consegnata, a cui nessuno può sottrarsi, se ha a cuore il destino di un popolo. Si, perché è anche un problema di cuore: non si può essere veramente generosi e disponibili al servizio degli altri se non si percepisce che la
propria vita, ogni vita umana è un dono, per se stessi e per gli altri.
È tutta qui la sfida: tornare a vivere il nostro tempo, a viverlo bene, a vivere diffondendo il bene, buone idee, buoni modelli di vita. Non bisogna essere intellettuali, filosofi, scienziati o legislatori per capire queste cose e la loro portata universale. La nostra gente, spesso ingannata e strumentalizzata da una propaganda mediatica colpevole di mentire o di non dire fino in fondo la verità, merita un supplemento
di cuore e di ragione: il nostro e di quanti riusciremo a contagiare intorno a un destino più umano. Uno sforzo che richiede pazienza, fatica, coraggio, martirio, ma che deve tradursi in nuovi spazi di dialogo, di ascolto, di amicizia, di fraternità.
La vita, un formidabile prodigio
A noi, credenti cristiani e carismatici, è chiesto di metterci a servizio di questa umanità, a difesa della vita dal suo apparire sino al suo naturale compiersi.
La vita non è una maledizione; non è una speculazione intellettuale, non è una manipolazione, non è una sorta di malattia ereditaria a cui sottrarsi; non può essere una sopravvivenza. Mai!
La vita è un evento, non un esperimento. È un interrogativo sempre aperto, mai una risposta confezionata e ciclostilata. La vita è un dono, donato e da donare. Sempre!
La vita è e rimane un prodigio, un formidabile prodigio! Quanta onestà intellettuale, quanta libertà interiore, quanta distanza dall’onnipotenza di una certa scienza, di una certa giurisprudenza è richiesta per riaccostarci con umiltà, senza presunzioni individuali o lobbistiche, al mistero della vita.
La vita, un fine d’amore
C’è una speranza, allora, che vorremmo sbocciasse nella nostra coscienza ecclesiale, per provare a ricostruire una coscienza del bene comune sempre più sfilacciata. Sarebbe facile, come rispose Caino alla domanda postagli dal Creatore, dopo l’omicidio di Abele, dire anche noi: «Sono forse io il guardiano di mio fratello?» (Genesi 4, 9). Ognuno di noi vive le gioie e le angosce della vita con una intensità che spesso porta ad isolarsi, addirittura a contrapporsi agli altri in nome delle libertà individuali, del pluralismo, di un anticonformismo dalle tinte sempre più accese.
Affidiamo la conclusione ad Atenagora, un filosofo cristiano ateniese del II secolo, con un pensiero antico e sempre attuale sul primato e sul fine della vita umana: “Tutte le realtà, sia quelle che provengono dalla natura, sia quelle che sono opera dell’arte umana, devono avere un fine proprio: ce lo insegna la ragione comune a tutti e ce lo attesta tutto ciò che ci sta sotto gli occhi. Non è lecito però supporre lo stesso fine per le realtà prive di giudizio logico e per le realtà che operano secondo una legge e una ragione loro insita, cioè quelle realtà che conducono una vita razionale e morale. Dunque, l’insensibilità al dolore non può essere il fine proprio degli uomini, perché in ciò essi finirebbero per accomunarsi agli esseri privi di senso. Non sbaglia, pertanto, chi asserisce che il fine di una vita, dotata d’intelligenza e di giudizio razionale, consiste nel restare ininterrottamente in ciò che primariamente conviene alla ragione naturale, ed esultare incessantemente nella contemplazione di Colui che è, e dei suoi eterni disegni” (in “La risurrezione dei morti”, 24-25).
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