“Dio è amore: Tu sei la Sua misericordia vivente tra gli uomini”. Questo il tema della riflessione di Salvatore Martinez, che si sofferma sul portato kerigmatico, carismatico della fede della Chiesa. Questo intervento è stato rivolto ai sacerdoti, nel corso di uno dei ritiri sacerdotali annualmente organizzati dal Rinnovamento nello Spirito. Parlando ai sacerdoti, il Presidente RnS li richiama accoratamente alla misericordia, tratto distintivo della nuova vita in Cristo e volano di evangelizzazione.
La parola “rinnovamento”
Tommaso, parlando dell’effusione dello Spirito, la definisce “terza“, e ci dice che non ci stancheremo mai di chiederla e di invocare il nostro rinnovamento e il rinnovamento della Chiesa. In fondo “rinnovamento” è la parola che ha accompagnato il nostro secolo, con essa si apre il Novecento: basti ricordare il suggerimento della beata Elena Guerra per un «rinnovamento della faccia della terra», o la grande stagione di rinnovamento aperta dal concilio ecumenico Vaticano II, nelle parole di Giovanni XXIII, e poi in tanti richiami di Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, fino a Francesco. Più volte la parola ricorre nel suo linguaggio; il 6 luglio, in modo chiaro, il Santo Padre fa un’esegesi della parola “rinnovamento” ed esorta a non avere timore di lasciarsi rinnovare.
Amore, verbo della vita
«Dio è amore» (cf 1 Gv 4, 8). La tradizione ci dice che a Efeso Giovanni, interpellato dai discepoli da poco giunti alla fede, oramai novantenne, era solito ripetere questo refrain: «Dio è amore», e a chi gli chiedeva “raccontaci del Maestro, parlaci di lui”, Giovanni non si stancava di rispondere: «Dio è amore ». Il suo Prologo inizia con questa espressione: «In principio era il Verbo» (cf Gv 1, 1ss), cioè prima di tutto – e in qualche modo potremmo dire con un significato esteso dappertutto –, è lui, il Verbo. Facendo quasi l’esegesi di questo primo capitolo, nella Prima lettera Giovanni dirà che «questo Verbo è il verbo della vita e di questo verbo noi abbiamo fatto un’esperienza sensibile; lo abbiamo visto, lo abbiamo udito, lo abbiamo toccato e ora lo annunciamo» (cf 1 Gv 1, 1-2). Io mi chiedo: “qual è il verbo della vita? Qual è il verbo degli uomini, dei viventi?” Il verbo della vita è l’amore. Il verbo della vita è amare, Dio è amore. Allora io sono, esisto dentro questa dinamica, dentro questo verbo della vita che implica la mia vita, che esige la mia vita, che la interpella. E l’ha interpellata a tal punto da renderla sacra, sacerdotale. Se voi portate una persona nel deserto e la costringete alla sete, la peggiore tortura che si possa fare è non dargli da bere ma mettere sulla sua lingua una, due gocce d’acqua. La sua sete in questo modo aumenta. Vorrei davvero che la vostra vita sacerdotale assomigliasse a un uomo assetato e che in questi giorni, questa santa tortura, queste gocce che lo Spirito Santo mette nella vostra vita, gocce d’amore, possano dilatare, ampliare il vostro desiderio di Dio, la vostra sete di Dio. Che bella l’immagine al pozzo di Giacobbe – nella tradizione il pozzo di Giacobbe è il luogo della verità, dove Dio fa verità sull’uomo e l’uomo fa la verità di Dio –, quando Gesù dice alla Samaritana: «Non cercare più in quel tempio; sono qui e se tu sapessi chi ti sta di fronte, chi ti chiede da bere, tu stessa gli chiederesti di quest’acqua e non ti stancheresti di chiedere» (cf Gv 4, 6ss). Così deve essere dell’amore di Dio. E di questo amore non ne possiamo fare soltanto un racconto, ne dobbiamo fare un‘esegesi del vissuto, cioè una vita. Ecco perché traduciamo la parola “amore” in misericordia. Non lo faccio da me, è il Papa a farlo, e la cifra di questo Pontificato è sotto i nostri occhi. Mi pare la risposta più bella a ciò che nel primo paragrafo di Deus caritas est, prima Enciclica di Benedetto XVI, Papa Ratzinger ha scritto: «Il termine “amore” è oggi diventato una delle parole più usate e anche abusate» (n. 2). Davvero non c’è parola più equivoca ed equivocata della parola “amore” tra gli uomini. Ecco perché Francesco ne fa un’esegesi vivente traducendola con l’espressione con cui la beata Teresa di Calcutta definiva la lingua materna dell’umanità: misericordia. Diceva madre Teresa, infatti, che la misericordia è la lingua materna perché tutti la possono capire e quindi tutti la possono parlare. Il verbo della vita è amore,ma questo amore per noi si traduce in misericordia.
Misericordia io voglio!
San Paolo definisce il suo ministero un servizio e nella Lettera ai Corinzi dirà: «Per amore di Gesù noi siamo servi, servi vostri, per amore ci facciamo segno d’amore, servi d’amore» (cf 1 Cor 9, 19). Ciò che però capita ogni giorno a ogni uomo che vive il verbo della vita è di dire: non so amare, non riesco ad amare, non ho più risorse per amare, ho provato e sono stanco, ho provato e ho fallito. Chi è amato non può ragionare così, chi è amato non può dire questo, non può definire fallito l’amore che vive in lui, perché chi è amato può solo amare, generare amore, dire e dare amore. Questa è la lettura che a noi interessa della crisi; altri diano le letture sociologiche, psicologiche, economiche, politiche, antropologiche – vanno tutte bene – ma dietro la crisi c’è solo e soltanto un deficit d’amore. È deficit d’amore quello che l’umanità sta vivendo. E la soluzione qual è? Non aprire il portafoglio, come molti pensano, e diventare più generosi, oppure vivere l’austerity – certo sono cose utili – ma snudare il cuore. Ecco la misericordia. Che cosa è la misericordia? È il cuore snudato di Dio, è quella kènosis di cui parla Paolo ai Filippesi, quella spoliazione, quel mettere a nudo il cuore di Dio. I romani ne tirano a sorte le vesti e lui appare nudo, appeso alla croce, ma è il suo cuore che viene snudato. E quando le nostre miserie incontrano la miseria di Cristo, che è la potenza, cambia tutto. Lo spiega Paolo, nei primi tre capitoli della Lettera agli Efesini dove sembra che l’Apostolo, in un esercizio stilistico, retorico, filologico, faccia appello a tutte le sue capacità per cercare di spiegare questa stupefacente potenza della ricchezza della sua grazia. Nel passo usa una ridondanza di termini: stupefacente, ricchezza, potenza, e la parametra a questa kènosis (cf Ef 1, 7ss), a questo cuore snudato. Si può salire il monte di Dio, come dice il Salmista, ancor prima che con le nostre acclamazioni, che con i nostri sacrifici, con le nostre mani pure. «Mani pure io voglio, misericordia io voglio e non sacrifici» (cf Mt 9, 13). E possiamo dare un significato estensivo alla parola “sacrifici“, che può diventare “sacri uffici“. Misericordia io voglio, mani pure, cuori snudati davanti a Lui.
“Papa sì, Chiesa sì”
Nel tempo della crisi sentiamo molti dire che bisogna stringere la cinghia, altri che bisogna stringere i denti. No, bisogna allargare il cuore perché il passo di Francesco, il Pontificato della misericordia, trovi in noi e nella Chiesa l’autentica risposta. Questo è un Pontificato che chiede autenticità. Questo è un pontificato che chiede la nostra kènosis sacerdotale. Ricordiamo come iniziò il Pontificato di Giovanni Paolo II, con quel grande appello: «Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo! », ma forse non tutti hanno riflettuto sulla prima Udienza pubblica di Papa Francesco, il 27 marzo 2013, quando il Santo Padre riprende in qualche modo la prima omelia d’inizio Pontificato di Giovanni Paolo II. Dice Papa Francesco: «Aprite le porte del vostro cuore, della vostra vita, delle vostre parrocchie – che pena tante parrocchie chiuse! – dei movimenti, delle associazioni e uscite!». Se Giovanni Paolo II esortava: «Lasciate entrare Cristo!», adesso Francesco dice: «Lasciatelo uscire!». Chiuso l’Anno della fede, dunque, si deve spalancare la porta della misericordia, si deve spalancare il volto umano della fede. Aprite queste parrocchie chiuse, queste associazioni, questi movimenti chiusi e andate incontro agli altri! «Uscire, sempre! E questo – completa Papa Francesco – con l’amore e con la tenerezza di Dio, con la misericordia,mettendo a servizio le nostre mani, i nostri piedi, il nostro cuore». Ecco l’amore. Che bella l’esegesi della Lettera di Giovanni – che inizia con l’espressione «Dio è amore» (cf 1 Gv 4, 8) – fatta da sant’Agostino!
Che piedi ha questo amore? Che mani ha questo amore? Che volto ha questo amore? E come’è bello poter sapere checiascuno può rispondere: i miei piedi, le mie mani, il mio volto, il mio cuore. Sta succedendo una cosa particolarmente originale nella Chiesa.
L’assunto è sempre stato “Cristo sì, Chiesa no“. Adesso è diventato: “Papa sì“.
È interessantissimo perché il Papa è la Chiesa. Chi dice sì a Cristo non dice necessariamente sì alla Chiesa e, infatti, l’obiezione più grande era il no alla Chiesa, ma dicendo sì al Papa, lo si dice anche alla Chiesa! Questi sono anche i frutti della kènosisdi Benedetto XVI.E di questo i sacerdoti devono essere profondamente convinti. È anche grazie alla kènosis di Benedetto che risorgeremo. Ecco che l’assunto “Papa sì“ deve diventare “Chiesa sì“, sacramento della riconciliazione sì, gesti carismatici sì, misericordia sì.
Io ma non più io
Una nota personale: un giorno, tornato da lunghe peregrinazioni, appena giunto a casa, sperando di poter riposare un momento, mi chiamano perché dodici immigrati arrivati da Lampedusa, e ospitati in un nostro centro, si erano rivoltati distruggendo il centro; le suore erano state aggredite, gli operatori erano spaventati, la polizia non poteva fare nulla. Erano immigrati di quindici, sedici, diciassette anni. Ragazzi scappati dalle guerre, che hanno visto violentare le loro mamme e uccidere i loro papà. La giustizia deve fare il suo corso, ma tutti i nostri sacrifici e tutta la giustizia umana quanto contano davanti alla misericordia che questi ragazzi invocano? Papa Francesco ci sta parlando – è originalissimo nelle sue trovate – della “scienza della carezza”. La Chiesa deve specializzarsi nella scienza della carezza. Se nei nostri centri di educazione, di riabilitazione, di reinserimento sapessimo far uso della scienza della carezza, se sapessimo donare misericordia!
Dobbiamo fare personalmente esperienza della misericordia, perché questo amore possa risplendere nella nostra vita nella misura in cui ci professiamo bisognosi. Dirsi peccatori significa dirsi bisognosi di amore. «È lo Spirito che ci convince» (cf Gv 16, 8), dice Gesù. Ma fa tanta fatica. È lo Spirito che ci spinge a confessare il bisogno di misericordia che c’è nella nostra vita. E quanto bisogno di misericordia c’è nella vita sacerdotale! Ma facciamo fatica a confessarlo. La vita sacerdotale, il cambiamento di cui parla san Paolo – diceva con la sua straordinaria intelligenza al Convegno ecclesiale di Verona, nel 2006, Benedetto XVI commentando «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Galati 2, 20 ) – comporta che ci sono io ma non più io, ancora io ma non più io. E questa modificazione genetica viene dentro la mia esistenza. Ecco la storia sacerdotale, una storia sempre viva e sempre nuova; ma questo “io non più io“ non è mai un cambiamento ordinario.
È sempre e soltanto dentro il cambiamento della Chiesa, corpo di Cristo di cui Cristo è il capo. La tua vita non è mai una vita arbitraria, così come non è arbitrario il tuo cambiamento, il tuo rinnovamento, il tuo progresso sacerdotale.
Categorie dell’Amore
La Chiesa sta vivendo un tempo pentecostale straordinario ed esige, invoca ministri della misericordia che sappiano diffondere amore a piene mani.
Il Pontificato di Francesco è il Pontificato dell’autenticità, ma l’autenticità richiede responsabilità. Si deve essere autenticamente responsabili del dono ricevuto. Quando san Paolo invoca lo Spirito su Timoteo, è perché rimanga fedele (cf 1 Tm 4, 14). È la misericordia che rivaluta l’amore, che autentica l’amore, che ci fa capire che questo amore è un amore:
- intelligente,
- sensibile,
- ricco,
- eterno,
- operante.
Si tratta di cinque categorie.
È un amore intelligente
«Aprì il loro cuore, la loro mente alla conoscenza delle scritture» (cf Lc 24, 45). I discepoli di Emmaus avevano smesso di amare. Amare la risurrezione è qualcosa di difficile per gli uomini del nostro tempo, infatti amiamo l’incarnazione senza risurrezione, amiamo eternarci sulla Terra; preferiamo amare le cose del mondo piuttosto che le cose di Dio, preferiamo vivere bene piuttosto che lasciarci scomodare alla richiesta che il Cielo fa alla nostra vita. I discepoli non potevano amare la risurrezione, non riuscivano ad amarla, dunque Gesù «aprì loro la conoscenza». Il suo è un amore intelligente.
È un amore sensibile
Si deve vedere, toccare, sentire questo amore (cf 1 Gv 1-4).
È un amore ricco
«Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza » (Gv 10, 10b). Questa è l’esegesi che san Paolo fa della ricchezza dell’amore.
È un amore eterno
È un amore immutabile, non muta, non varia, non è legato alle nostre capacità, fallimenti, abilità; è un amore a priori. Che tristezza l’amore a posteriori! L’amore cristiano è un amore a priori, perché l’amore di Cristo non è contrattualistico. Eppure, quanta contrattualizzazione nella Chiesa! Contrattualizziamo i nostri uffici, i nostri impegni, le nostre collaborazioni. Quante collaborazioni forzate che non nascono dall’amore! Contrattualizziamo anche la nostra amicizia nel Signore, tanto che la tradiamo facilmente. Invece il suo è un amore ricco, eterno e immutabile. Prescinde da noi. È fondamentale ricordare l’Inno alla carità nel quale san Paolo dice: «Tutto finirà ma non questo amore» (cf 1 Cor 13, 13). È un amore eterno, celeste, e il sacerdote è uomo celeste per eccellenza, l’altare paradiso per eccellenza.
I sacramenti sono luoghi paradisiaci per eccellenza.
È un amore dinamico
È un amore operante. È l’azione dello Spirito in noi che dinamizza, che risveglia tutto, che potenzia tutto, che carismaticizza la nostra vita sacramentale. Sì, è bene che queste espressioni proviamo in qualche modo ad applicarle. Un sacerdote dinamizzato dallo Spirito è un sacerdote che vive la sua esperienza sacerdotale in un modo “carismaticizzato”. Essere spiritualizzati significa far vedere le opere dello Spirito, edificare il regno di Dio.
Padre, Figlio, Spirito Santo
«Dio è amore» (cf 1 Gv 4, 8). Questa espressione la dobbiamo sempre formulare nella logica trinitaria. Il Padre è l’amore – «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio» (cf Gv 3, 16) – e la vita di Gesù è un‘esegesi vivente dell’amore del Padre, è un continuo rimando all’amore del Padre. Dunque, il Padre ha l’amore, Gesù è l’amore, lo Spirito dà l’amore. E in questa triplice direzione la vita sacerdotale deve potersi leggere come un libro aperto. Il Padre ha l’amore: si riceve dal Padre, dall’adorazione del Padre: «Chi vede me vede il Padre» (cf Gv 14, 9). Io non so quanto, nei nostri sensi spirituali, sviluppiamo la percezione che noi adoriamo il Padre, cioè viviamo la dimensione di figli. San Paolo dice: «Io piego le mie ginocchia, questo è il ministero, perché dal Padre viene la mia paternità spirituale, che uso a vantaggio del popolo di Dio, dal Padre vengono i miei gesti» (cf Ef 3, 14). L’uso della parola, la mia preghiera sacerdotale, sono tutte filiate dalla paternità del Padre, è lui che me le dà. Noi non ci affranchiamo dal Padre, è lui che ha l’Amore. Il Figlio è amore: viviamo nel Figlio e di lui facciamo esperienza. È lui la causa, l’effetto, è lui che ci permette di far vedere che siamo nel Padre. «E il Padre è in me» (cf Gv 17, 21), dice Gesù. Lo Spirito dà l’amore, senza di lui vivremmo staticamente, fuori dalla storia. È fondamentale che riscopriamo tutto questo e che, come dice Ezechiele, ci rendiamo disponibili a «chiedere un cuore nuovo e ad avere uno spirito nuovo» (cf Ez 18, 31). Uno «spirito nuovo» è scritto con la “s” minuscola, significa una intelligenza spirituale, un pensiero – come dirà san Paolo nella Prima lettera ai Corinzi – per pensare in modo spirituale, per definire nella nostra vita l’ampiezza, la larghezza, la portata dell’amore di Cristo (cf 2, 10-15). «Come il Padre ha amato me – ecco la prima azione – così io ho amato voi – la seconda azione. Rimanete nel mio amore» (cf Gv 15, 9). Prima Gesù aveva detto: «Se farete questo sarete miei discepoli» (cf Gv 8, 31). Ecco il tempo dello Spirito, ecco la storia, ecco la missione, ecco la misericordia.
Vincolati all’Amore!
Scrive san Leone Magno, in uno dei suoi sermoni, che nell’amore nulla è troppo, ma nell’amore del mondo tutto è troppo, ed è anche nocivo. Nell’amore di Dio non possiamo dire “è troppo”; “sto amando troppo“ non è un’espressione che si addice a noi; “sto dando troppo la vita per il mio Signore“ non è un‘espressione che regge. Non è mai troppo questo amore. Ecco perché può solo rinascere, ripartire, rigenerarsi, riqualificarsi, rimodellarsi, riadattarsi al cuore del Padre, nel Figlio, per lo Spirito. Ma se è amore del mondo è sempre troppo, ed è nocivo!
Questa dialettica, questo combattimento è tutto scritto nel capitolo 4 di Giacomo, che è l’esegesi di quel «mondo che vi odia» di cui parla Gesù nel suo testamento (cf Gv 15, 19). C’è un amore, cioè, che vi combatte, vi sfida; c’è un amore che vi cattura, c’è un amore che vi seduce, c’è un amore che vi fiacca. L’amore che fiacca non sono i peccati, l’amore che fiacca sono i pesi, le abitudini non redente, non visitate dallo Spirito. I peccati configgono, i pesi fiaccano. Ecco perché Paolo dice: «Corro verso la meta, deposto ogni peso e ogni peccato che mi è di ostacolo» (cf 1 Cor 9, 26-27). Quanti pesi rendono il nostro passo, il passo della misericordia, stanco e più lento! Nell’Udienza privata con Papa Francesco che ho avuto il privilegio di vivere il 9 settembre (2013, n.d.r.), parlavamo dell’Italia, della Chiesa italiana e dell’Europa e il Papa mi chiedeva cosa pensavo. Io ero tentato di dire che il nostro Continente è un continente vecchio, ma mentre stavo per pronunziare questa parola ne ho pronunziata un’altra: “stanco“. Il Papa mi ha guardato e puntando il dito mi ha detto: «Ecco la parola giusta, stanco!». In realtà è così; lui ha 77 anni e non è stanco, dunque non si tratta di essere vecchi, anche i giovani, alle volte, sono stanchi. La questione non è se Dio si è stancato di noi ma se è stanca la nostra alleanza con lui, se è stanco il nostro ministero. Gilbert Keith Chesterton scrive che abbiamo inventato, come segno della modernità, un‘espressione assolutamente contraddittoria che vige anche tra i cristiani: “l’amore libero“. Siamo liberi di amare. No, noi siamo legati, non siamo per niente liberi, siamo dentro un patto, siamo dentro un‘alleanza! Siamo stati vincolati, associati, incorporati. Quando parliamo della libertà dello Spirito, questa non è mai il pretesto per amare, non c’è discrezionalità in questa obbedienza. Io non posso dire “non amo”. Io piego le mie ginocchia e ritrovo la capacità di amare. Non posso dire non so amare, non posso amare e, tanto meno, non voglio amare. Sono costituito segno di questa fedeltà, di questa alleanza eterna, di questa capacità che non viene da me ma che viene da Dio che si è manifestato in pienezza in Cristo Gesù, Amore che non ho meritato ma che signoreggia nella mia vita, che è sovrano e immutabile nella mia vita e che non ha misura. Io non lo posso misurare questo amore, né saprei misurarlo.
È quindi una pratica sempre aperta l’amore di Dio. Annoiamo noi stessi e gli altri quando non stiamo dentro questa pratica di amore. Ed è terribile vedere che gli altri si annoiano davanti a noi, che non gradiscono, che tutto è pesante, che non fluisce nella gioia, che non crea entusiasmo, simpatia, voglia di andare avanti, voglia di realizzare. Ce ne accorgiamo, però ci ostiniamo. Ci rendiamo conto che c’è bisogno di un soffio, eppure rimaniamo lì.
I gesti della misericordia
«Non dobbiamo avere paura della misericordia», ci dice il Papa. È un‘espressione che colpisce. Significa che non dobbiamo avere paura della conversione nell’amore, perché questa è la misericordia: la conversione dentro l’amore. Non possiamo avere paura di stare dentro «la fantasia di Dio», come la definisce nella Novo millennio ineunte san Giovanni Paolo II (n. 50).
Nella Lettera ai Romani, san Paolo dice che la consapevolezza di tutto questo deve spingerci a conversione. Ecco perché non possiamo concludere l’Anno della fede senza abbinare i due verbi fondamentali usati da Gesù: «convertitevi» e «credete»; si può credere se ci si converte. Il Pontificato della misericordia deve essere lo spazio della mia conversione, perché anche io diventi il volto umano, quindi credibile, di una fede creduta. È credibile una fede creduta! Ed è creduta nello spazio della mia conversione; è nello spazio della mia misericordia che il Signore mi usa. Bisogna allora uscire dall’autosufficienza e accettare la propria condizione. Una vita non convertita è una vita autogiustificata e questo è l’errore del mondo, l’idea dell’auto-salvezza. Una vita non convertita è una vita che cade nell’errore della modernità, quello che Benedetto XVI ha definito «la più grande dittatura del nostro tempo», cioè una fede relativizzata, un amore relativizzato, un amore soggettivizzato, fuori dalla soggettività di Cristo, mentre l’amore non ha misura, chiede spazio e invoca rinnovamento.
La consapevolezza
Lo spazio della misericordia per i sacerdoti è innanzitutto l’immagine di Pietro che piange (cf Lc 22, 62). È la consapevolezza di aver fatto fallire Cristo nella mia vita. Quante volte Cristo fallisce nella mia vita! Dico che vive in me e che io vivo in lettera, portate a radicalità, fanno tremare, fanno paura, fanno vergognare e piangere amaramente: questo è il primo segno della conversione, questo è il primo gesto della misericordia.
L’incontro con Gesù Cristo produce sempre e solo un “di più”. Gesù dice sempre “di più“, non dice mai “come prima“. Nell’Apocalisse, il primo rimprovero fatto alla Chiesa di Efeso è di avere smarrito l’amore di prima (cf 2, 1ss). Lì si parla dell’entusiasmo del primo incontro, ma ogni giorno quell’amore deve crescere. Noi non amiamo Gesù Cristo con lo stesso amore di quando lo abbiamo incontrato, saremmo ancora dei discepoli. Non puoi dire che lo ami come nel giorno della tua consacrazione sacerdotale o episcopale. Se questo vale in termini di abbandono, di fiducia, di sottomissione benissimo, ma nel frattempo quell’amore deve essere cresciuto. Tu sei innestato nella logica del “di più“. Gesù può solo così rilanciare su Pietro, dinanzi al suo pianto amaro: chiedendo di più. La prima conversione, dunque, è la consapevolezza di aver fallito l’amore.
L’attrazione
La seconda avviene sul Mare di Tiberiade. «Mi ami più degli altri? Mi ami più di costoro?» (cf Gv 21, 15ss), chiede Gesù a Pietro. E cioè, sei attratto da un nuovo amore? È quello che sta succedendo nella Chiesa: la gente si avvicina per attrazione, forse senza capire, all’inizio. Come a Pentecoste. Pensiamo ai due verbi di Pentecoste. Dinanzi a quel miracolo d’amore la prima domanda che si pongono le persone è: che cosa sta succedendo? E la seconda domanda è: adesso che cosa dobbiamo fare? (cf At 2, 1ss). Voi sacerdoti conoscete bene questi due verbi perché tanta gente viene da voi e si chiede: che cosa debbo fare? E voi per primi, dinanzi a certe situazioni, su certi temi in cui l’esperienza precede il diritto, la teologia, dite: e io cosa devo fare adesso? La modernità ci sta regalando una umanità che impressiona e che in taluni casi ci atterra. Nei nostri gruppi di Rinnovamento cominciano ad arrivare persone che hanno cambiato sesso, poi hanno incontrato Gesù Cristo e ora chiedono di tornare indietro, persone che hanno due o tre famiglie, due o tre spose, figli disseminati da tutte le parti, e poi incontrano Cristo e dicono: e adesso cosa faccio, come rimetto in ordine questo inferno? E il Papa ci dice: “misericordia”, ci chiede che i nostri cuori siano aperti, ci chiede di far sentire che tra noi c’è Cristo, che può entrare in quel dramma. «Lo Spirito ci dirà cosa dovremo fare» (cf Mt 10, 19-20). Tu sappi che qui, adesso, con te c’è Cristo, è l’ora di Cristo. Che bello!
E mentre le due domande di Pentecoste si levavano al cielo, ecco che giunge la conversione: «Si sentirono compungere il petto, (cf At 2, 37), cioè non ebbero bisogno che qualcuno dall’esterno gli dicesse che cosa fare o gli spiegasse il miracolo della Pentecoste, lo capirono da se stessi. Ecco lo Spirito, al quale spesso ci sostituiamo perché pensiamo che spetti a noi, mentre è lui ad agire, bisogna solo creargli il palcoscenico. L’uomo è il palcoscenico dello Spirito Santo. A furia di fare noi gli attori, i protagonisti, talvolta non riusciamo a permettere il protagonismo dello Spirito Santo.
La spinta
La terza azione di conversione: sentirsi spinti a dare testimonianza dell’amore ricevuto. Così Pietro, che sperimenta la sua conversione e riceve misericordia, potrà parlare ed essere causa della conversione di quei tremila. Potrà alzarsi e, spinto dallo Spirito, potrà rendere testimonianza dell’amore.
L’essere usati
Quarto verbo: essere usati da Dio. «È Lui. Si sentirono trafiggere il cuore» (ibid.). Lasciamoci usare: Gesù è tutto misericordia perché è tutto amore e se lui si è fatto amore, i gesti della sua misericordia devono diffondersi per mezzo nostro. «Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro che è nei cieli» (cf Lc 6, 36). Questo è lo spazio esclusivo del ministero sacerdotale. Io ho avuto la grazia di accompagnarmi a santi sacerdoti e uno tra tutti vorrei ricordarlo, perché è stato per molti di noi un riferimento per la sua santità di vita: padre Matteo La Grua. Pochi uomini avevano la sua scienza e la sua sapienza teologica e patristica. Conosceva la Bibbia a memoria, poteva citare i Padri della Chiesa e i documenti magisteriali con un’abilità strepitosa, ma è ricordato per la sua misericordia, per la scienza della carezza, per l’autorità della preghiera sacerdotale, per la forza del ministero sacerdotale. Questo è lo spazio della nostra conversione in questo tempo benedetto da Dio e, come dice Paolo nella Lettera a Tito (cf 3, 5), lo spazio della nostra “rigenerazione“, che chiamiamo rinnovamento nello Spirito, per la sua misericordia.
Non arrestiamo la misericordia!
Guardiamo alla parola profetica che ha generato nel tempo, nella Storia, l’esperienza del Rinnovamento nello Spirito, «un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo» (cf Tt 3, 5): questa è la salvezza come la racconta san Paolo. Lo Spirito rende nuova la vita, rende nuovo il cuore, rende forte e robusta la fede. Libera la mente e la volontà da tutto ciò che le inquina, le arresta, le frena. Non arrestiamo la misericordia! Sono piccoli gesti ma piacciono a Dio, commuovono Dio. Quando san Paolo dice che «eravamo peccatori e la grazia è venuta a noi» (cf Rm 5, 8), significa che noi meritiamo ciò che non avremmo dovuto meritare. Quando parliamo della misericordia, dovremmo dire il contrario: non meritiamo ciò che avremmo dovuto meritare, cioè la punizione, cioè il giudizio. La grazia viene a noi che non la meritiamo e spesso noi la risparmiamo ai fratelli; la misericordia ci dice in che modo reagiamo alla grazia, in che modo mostriamo ai fratelli un cuore duro, gesti che sono espressione di una fede morta. Diceva Papa Paolo VI: «Può esistere una fede morta?». Sì, può esistere.
Si può ministrare con una fede morta. Quando facciamo questo, noi infliggiamo ciò che invece, nella misericordia, Dio risparmia. La compassione di Dio passa attraverso noi.
Sperimentiamo la misericordia!
Per avere autorità, quando noi assolviamo, dobbiamo fare esperienza di misericordia. Nella misericordia non c’è giudizio, non c’è sacrificio, non c’è condanna, non c’è pena. Come sarebbe bello se negli incontri di fraternità sacerdotale si facesse, gli uni verso gli altri, esperienza di misericordia per avere autorità nella misericordia, perché la grazia passi, risparmi, giustifichi. Il Signore Gesù ci dia di vivere tutto questo. Non ci capiti di essere come Giona! Il Papa ha detto che ciò che serve alla Chiesa è il segno di Giona, non la sindrome di Giona. Qual è la sindrome di Giona? Non è soltanto andare dall’altra parte, dalla direzione opposta, è anche il non complicarsi la vita. Doveva andare da un popolo di peccatori. Perché Giona scappa?
Perché non aveva il cuore imbevuto di misericordia. Allora, ciò che dobbiamo cercare è il segno di Giona, Gesù Cristo; ciò che dobbiamo debellare è la sindrome di Giona, la fuga dalla misericordia. Lo Spirito Santo ci dia questa grazia! Il profeta Isaia dice: «Voglio ricordare i benefici del Signore, la gloria del Signore, quanto egli ha fatto per me. Egli è grande in bontà per la casa di Israele – guarda la tua vita, la tua casa, il tuo ministero – egli ci trattò secondo la sua misericordia, secondo la grandezza della sua grazia. Disse: “Certo, essi sono il mio popolo, figli che non deluderanno” e fu per loro un salvatore in tutte le loro tribolazioni. Non ha inviato un angelo, ma egli stesso li ha salvati; con amore e misericordia li ha riscattati, li ha sollevati, li ha portati su di sé per tutti i giorni» (cf 63, 7-9). Che il Signore ci dia la grazia di inginocchiarci e di essere rialzati da lui, sollevati e portati su di sé, il buon Pastore, per tutti i giorni della nostra vita e del nostro ministero.
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